mercoledì 12 febbraio 2020

L’orgoglio ereditato

L’orgoglio ereditato

Non vorrei parlare di questa cosa e sono più giorni che ci rimugino.
La discrezione e il rispetto, l’inafferrabilità del gesto invitano a tacere.
Il suicidio.
Ma Michele, così si chiamava il ragazzo, ci motiva il gesto e forse siamo obbligati a parlarne.
Non farlo tradirebbe ancora il suo urlo al mondo.
Conosco tutti i percorsi, non ho consumato solo il gesto.
Come una polizza me lo sono conservato a garanzia.
Ero maturo e potevo metterlo in pratica quando volevo.
Come aver superato tutti gli esami e la laurea era a tua disposizione.
Quando volevi e non dovevi chiedere e attendere la sessione.
Ho iniziato il cammino bambino, neanche sette anni e ci pensavo.
Gustavo la liberazione e ne sentivo il senso.
L’unico freno il dolore della “mammina” mia.
Non si era bambini in quel tempo, ma uomini in miniatura.
Solo la forza insufficiente che non ti salvava dal possibile.
E il possibile era la fatica sotto sforzo di tutti i giorni e d’ogni aspetto della vita.
Ti sentivi morire e credo che la morte fosse più clemente.
Lottavi.
Non c’era attimo di tregua e l’unica carezza alla quale avevi accesso, valeva meno di te.
Già così provata dal dolore della vita, non potevo aggiungere il mio a lei immagine dell’Addolorata.
Eri niente, valevi niente.
Una mucca, un cavallo, un maiale erano più tutelati e compresi.
Non so se mi abbiano formato, ma notavo le differenze.
I compagni di scuola, d’istituto, qualcuno di giochi.
Quello alle biglie l’unico e la sorte l’ha fatto morire fanciullo, dodici anni, sottraendomi insieme all’amico tutte le palline che non potendo averle con me, lui mi custodiva.
Chissà come mi vedevano loro i compagni e tutti gli altri, ma di privilegiato mi celebravano.
La licenza media e la dipartita del padre.
Cessa l’uomo in costruzione e subentra quello responsabile e insufficiente.
Quante porte sbattute in faccia.
Lacrime e nessun appoggio.
Avevo un solo modello che amando con odio, mi sorreggeva.
E la forza della e nella impossibilità.
Mai mi abbandonarono le sue parole e il riscontro di non piacergli e la sensazione del fallito.
Ho resistito e ho costruito sapendo d’avere poco tempo.
Quanta fatica, dolore e orgoglio ereditato.
Non mi sono arreso mai.
Ho costruito tanto, poco, niente?
Ma mi sono inventato in ogni momento e quell’orgoglio ereditato era il propellente.
Se a Michele il ragazzo di trentuno anni, io a trentatre avevo concluso tutto e mi sentivo vecchio e superfluo, fosse stato inculcato l’orgoglio del fare?
Del riuscire a ogni costo?
Dell’inventarsi lavoro e vita?
Ogni emancipazione è perdita e l’uomo ha perduto i cicli.
Ci si suicidava per onore e non per il rifiuto di un lavoro stabile e la stanchezza.
Le colpe e i meriti sono individuali sempre, ma quelle di questa civiltà della rinuncia, della morte dell’iniziativa, dell’attesa come provvidenza supera certo quelle individuali.

©Michele Cologna
San severo, domenica 12 febbraio 2017 - 08:56:47 –

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