giovedì 24 dicembre 2009

“Dies natalis invicti solis.”

“Dies natalis invicti solis.”

Così il calendario civile romano, che fin dal terzo secolo celebrava il solstizio invernale e il natale del sole invitto.
I cristiani vollero fare loro questa ricorrenza con la celebrazione del vero Sole, il Dio che si è fatto uomo.
Ancor prima del calendario romano, il solstizio invernale significava che insieme alla nuova vita del sole, iniziava il nuovo processo vitale.
L’inverno è la morte.
Quella morte necessaria alla nuova vita.
Morte e Vita in un unico abbraccio, la morte incubazione della nuova vita.
Non ci sarebbe gestazione senza dell’inverno.
Della Morte.
L’uomo nuovo che esorcizza la morte, dovrebbe comprendere che senza non ci sarebbe vita.
Ora il Natale la celebrazione della Natività occupata dal consumo.
Ma non è di questo che voglio parlare.
“A te che sei del mondo il creatore, manca pane e fuoco, oh mio Signore.”
Avrei voluto che non mancasse al creatore pane e fuoco e non nascesse in una grotta, vorrei che nessun bambino ancora soffrisse il freddo, la fame e malattie e nascesse in squallidi abitazioni.
È un sogno?
Un’utopia?
Gli uomini, tutti sono portati a immaginare un mondo etico o soprannaturale e in questo collocare l’aspirazione a questa esigenza.
Si svolgevano le Olimpiadi ad Atene e un atleta vantava risultati prodigiosi nella città di Rodi.
Uno degli ascoltatori, non sopportando più tanta vanteria, apostrofò l’atleta dicendogli, “Hic Rodus hic salta”.
Apostrofando l’astante ateniese, direi: o uomo, questa nostra vita è l’unica verità incontrovertibile che conosciamo, perché non c’impegniamo qui ed ora per modificarla?
Lasciamo alle nostre coscienze, alla nostra cultura, alle nostre esigenze l’aspirazione in un mondo di verità e di giustizia, ma nel frattempo tutto il nostro impegno per migliorare questo.
Si dirà, come si dice, i governanti dalla notte dei tempi hanno fatto sempre scempio di verità, giustizia, e altro… non è cambiato mai niente non cambierà nulla.
Non voglio obiettare che non è vero, entrerei in un ragionamento che non voglio fare.
Dico che l’uomo, dopo millenni di storia: conquiste e sconfitte, si è dato, con l’approvazione delle Carte Costituzionali e i Parlamenti, il Governo del Popolo.
Il Popolo governa attraverso i suoi eletti.
Significa che quei signori che siedono in Parlamento, sono uomini al nostro servizio e non noi al loro.
È chiaro che questo può avverarsi solo se esercitiamo il nostro diritto-dovere al controllo.
Le Costituzioni determinano il sistema di governo e il nostro, come nella maggior parte dei paesi che contano al mondo, è democratico.
La caratteristica principale della democrazia è che dopo un tanto di anni si va a votare e si può cambiare chi governa se non ha fatto il proprio dovere.
Credo che ognuno di noi, anziché paventare un mondo di giustizia dell’aspirazione, dovrebbe impegnarsi per garantirla hic et nunc.
Come?
Controllando e impegnandosi a comprendere la vita pubblica.
Ciò non impedisce, né lede qualcuno nelle aspirazioni dell’anima.
Ora nella celebrazione della Natività tutti ci proponiamo d’essere migliori e nello scambio di auguri ci commuoviamo al pensiero di un mondo più giusto.
Sta nelle nostre mani un mondo diverso.
Non in un’aspirazione.
Allora voglio fare i miei auguri di Natale dicendo a tutti:
agli amici e non;
ai conoscenti e non;
a chi amiamo e a coloro che ci sono indifferenti;
a ogni uomo di buona volontà, che il Natale ci porti non a sperare, ma a impegnarci esercitando il nostro controllo, affinché tutte le aspettative, le aspirazioni che collochiamo in un mondo etico della non esistenza o di una esistenza che sarà ad avvenire, si realizzino qui con il nostro controllo e l’esercizio della volontà e dell’impegno.
Buon Natale a tutti e tanto impegno nell’etica della volontà.

Michele (san severo 24/12/2009 11.27.45)

mercoledì 23 dicembre 2009

Melanconia...

Tu, dei miei la Forma…
Dell’anima l’Essenza…
Dello sguardo la Musa…
Cuore, del mio perso…

Tu de l’intelletto Regina…
Genio dell’amore totale…
A catene d’oro mi leghi,
leggiadra sella è il basto.

Velo di occhi profondi,
di sorrisi di Melanconia
mi scruti il pensiero… e
il mio ammaliato ti doni.

In danze remote ti mostri,
su veli ornati di rose poggi
voluttuosa, e, a la mia arida,
porgi le labbra del tuo fiore.


Michele (23/12/2009 12.34.29)

martedì 22 dicembre 2009

Bugiardo...

Nessun mi crederà, eppur come bugiardo affermo il vero.
Dei tuoi profumi fiuto tutta la verità.
Assente nel buio, il tuo corpo flessuoso alle mie mani prive di tatto apre il fiore.
All’ascolto dei rumori sgrammaticati - dei suoni afoni delle coppe alzate alla sposa sciantosa, ansante piaceri ritmati -, porgo nel nero invisibile l’orecchio al precluso.
E godo dell’agonia della preda il battito nudo dei piedi bagnanti nel pozzo oscuro del piacere proibito.
Aspergo la fonte ascosta, e nel nero rifugio, abisso olezzante d’ingannevoli abusi, affondo il Nous.
Logos sostituto di bugie negate al vero, bitumato specchio immago inghiottita.


Michele (22/12/2009 20.51.22)

Ircocervi...

Ci son parole che suonano.
Pensieri che incantano.
I tuoi innamorano, cantano e in armonia ti portano.
Sulle loro ali attraversare il tempo.
Raggiungere l’Assenza e fermare l’attimo.
E Noi, in quello, consumare l’Indeterminabile.
Nella fissità scolpirne i volti: della tua Bellezza, dell’inquieta mia Essenza.
La Deformità - oscuro aspetto - e spazio e tempo assente, vivrà di Metamorfosi ne l’amore.
E vite sciupate e inconsapevoli nati e menti perse nel delirio, nutrire.
Acefali…
Amorfi…
Ircocervi…
Sembianze di vita di pensiero assente.
Amalgami deprivati dell’essere.
Noi, io e te.
Né tempo, né luogo, né parvenze vitali.
Nella fissità imperituri.
Etterni.

Michele (22/12/2009 12.09.40)

lunedì 21 dicembre 2009

Travaglio...

Da stamattina mi percuote il cervello e l’anima il motivo, “se fossi stato più generoso”.
Mi giustifico, ma evidentemente non riesco ad essere convincente.
Ieri l’altro, circolando in macchina per servizi in san Severo, notai un manifesto da lutto, per la morte di Teresa Tizio, vedova Caio.
Pensai, “Santo cielo! Mi dispiace, poverina”.
Un poco di anni addietro, mi trovavo nella mia banca per il disbrigo ordinario di alcune operazioni.
Mi approssimai allo sportello dove operava l’impiegato mio referente.
Altri clienti fecero notare che si faceva fila unica e dovevo accodarmi.
Chiesi al personale della banca in virtù di quale criterio e quale norma si stabiliva ciò. I toni un po’ si accesero e pretesi l’intervento del direttore.
Ho argomenti e tono abbastanza autorevoli e il direttore dovette convenire che non era il caso dell’unica fila.
Come succede in queste discussioni, a argomento chiuso, tutti dicono la propria.
Davanti a me stava la signora Teresa, del mio travaglio di stamattina, che certamente affascinata più dal mio aspetto che dal mio argomentare, mi dava ragione pur non dando torto alla banca.
Si sbrigò e, cosa alquanto inconsueta, mi salutò dandomi la mano.
Finite le operazioni uscii e in strada trovai la signora affaccendata a controllare varie ricevute.
Con gentilezza e dopo una captatio benevolentiae, mi chiese delle cose che compresi immediatamente strumentali.
La signora, decisamente carina, era d’anni un po’ più avanti del sottoscritto.
Si presentò, compresi chi era e iniziò a parlarmi della sua vita.
Mi esternò confidenze abbastanza dolorose e poiché sono molto sensibile al dolore altrui, misi da parte alcune riserve mentali e mi dedicai con attenzione alle sue doglianze.
Detti la mia disponibilità a seguirla per continuare il discorso.
Passo, passo arrivammo a casa sua e m’invitò a salire.
Ero un po’ titubante, ma non volendo sembrare scortese salii.
Il solito cerimoniale e poi iniziò a parlarmi del suo defunto marito.
Ad evitare che affermasse cose che facevano aumentare le mie accennate riserve mentali, le confessai che io suo marito lo conoscevo, che non proprio lo stimavo, e che, in qualche maniera, ero l’incolpevole fautore dell’inizio del declino della sua impresa.
Le spiegai che fui l’iniziatore della vertenza collettiva che i dipendenti della sua ditta iniziarono e che per la forte connotazione fascistoide e antioperaia del defunto marito, la vertenza precipitò e l’autorità giudiziaria ne decretò l’amministrazione controllata alla quale seguì il fallimento.
La signora Teresa si irrigidì un poco, ma con misurata disinvoltura corresse il suo parlare e iniziò una corte meno mascherata nei miei confronti.
Attratto dal suo aspetto abbastanza prominente, ma contrariato e dal cangiante comportamento, cioè dell’approccio ingannevole, poi accantonato quando il primo ha mostrato la corda, e dal ricordo di alcune confidenze delle dipendenti della ditta di suo marito, che questa signora era avvezza ad avere, prendersi tutto o con le buone o con le cattive, mi ricordai di un appuntamento vero, ma che in realtà avevo già perso a causa sua, e la salutai cortesemente andando via.
Rimase delusa le signora, molto rammaricato io che già scendendo le scale mi pentivo dello stupido comportamento.
La rinuncia a una combinazione che magari avrei cercato e contribuito a creare.
Non me ne facevo una ragione, certo non potevo – meglio, non ho avuto il coraggio di – tornare indietro.
Incontrai altre volte la signora Teresa che sempre con molto garbo e con sincera ammirazione e vera pudicizia mi invitava quando desideravo a farle visita.
Le mie promesse affermative erano sincere, ma non varcai mai quella soglia.
Non ho compreso il perché e non lo capisco tutt’ora.
Mi dispiace, però.
Ed è dispiacere vero.
Specialmente ora che lei non c’è più.
Avrei potuto donarle la gioia di sentirsi ancora donna desiderata, e non volendo l’ho certamente umiliata.
Perdonami, signora Teresa.
Chissà!, un poco di generosità in più, e forse un po’ di realistico carpe diem…
Ti sia leggero il viaggio, ora sai che non mi eri affatto indifferente.
Vale.


Michele (san severo 21/12/2009 9.01.51)

venerdì 18 dicembre 2009

I poeti...

I poeti sono uomini che giocano con le parole.
Non necessariamente le praticano nei giochi della vita.
Come i sacerdoti d’ogni fede e credo nella dicotomia tra il dire e il fare consumano la miseria che è dell’uomo.
Tutti.
Non avendo crociate da condurre, però, la loro caducità è riso beffardo, pianto sincero, dolore autentico, parola vissuta sulla condizione data.
Errante in cammino in terra sconosciuta.


Michele (18/12/2009 9.29.24)

mercoledì 16 dicembre 2009

Tu sei Bellezza e della Vita l’incanto...

Tu sei Bellezza e della Vita l’incanto.
Sei Cielo e dell’Universo la dimora.
Terra e degli Uomini l’ultima Vestale.
Della Giustizia la Dea occhiuta.

Il tuo Rosso espandi e dai vita ai colori.
Rubino prezioso arricchisci gli occhi.
La tua Nudità la Venere asconde.
La Dignità virginea a la Natura doni.

Incantato, dal tuo alito aspiro ossigeno.
Ammaliato, dalla tua bellezza la vita.
Catturato, dal tuo rosso l’ardito spirto.
E per conquistarti, l’Omo Novo faccio.

Michele (16/12/2009 10.49.52)

martedì 15 dicembre 2009

E io che d’amor puro t’amai, e...

E io che d’amor puro t’amai, e
di passate lacrime, or catene di
promesse desiderate, la parola
coniugo al sogno stramazzato.

Rialzati, oh mio, lei è aria che
si respira. È vento che carezza.
Acqua che disseta e fuoco che
scalda. Sguardo che consuma.

Lei è dei profumi regina. Dei
colori l’iride... di tutti i fiori il
campo. Di ogni cuore l’alveo.
Porto di mare… sicuro braccio.

Vetta, ognun scalatore il disio,
irraggiungibil meta. Abito di
seta frusciante... velluto, lembi
voluttuosi, di scarlatti fascinosi.

Sfinge, enigmi raffinati e Musa.
Versi danzanti per fini intelletti.
Corpo e sensi… invochi rovelli
i suoni, ei crine argenteo plachi.

Michele (15/12/2009 8.39.27)

sabato 12 dicembre 2009

No, bella signora, non son innamorato di te...

No, bella signora, non son innamorato di te!
Hai fascino e tanto, m’imbrigli. Confondi…
Interpreti il tuo ruolo di donna divinamente.
Le tue movenze… cultura… femminilità…

Voce d’angelo hai, se loro ne avessero una.
Sensuale e curata, moduli suoni poggiandoli
ai sensi. Vibri le corde come viola d’amore.
D’arpa virginea i consumati toni alti e bassi.

Leggera ne la foggia, spessore di polverosi
libri macini. Classica/moderna arte traghetti.
Compostezza dissacrante, affondi nel nuovo
le tradizioni. Caduca porti della memoria la

forza. Femminilità spandi e feromoni reggi.
Provocante nella marginalità e ne l’audacia
assente, nell’immanenza delle forme laceri
pensieri: brucianti spinte di castigati amori.

Viperina ne gli slanci di goffo ammantati.
No, non t’amo. Eppur avrei voluto viverti
per plasmarmi di te. Respirarti per sentirti.
Viverti per innamorarmi. Sognarti. Amarti.

Michele (12/12/2009 11.40.47)

giovedì 10 dicembre 2009

10 dicembre 1970

10 dicembre 1970

Ore 5.00, trilla la sveglia, la mano giovane della donna corre a schiacciare il meccanismo infernale che lacera l’ancora addormentato silenzio.
Veloce si alza a preparare il caffé al pur giovane marito che inizia il suo turno di lavoro alle 6.00.
La caffettiera già preparata dalla sera qualche minuto e sbuffa spandendo il suo alito caldo.
La fresca gazzella dalla grossa pancia s’approssima al letto pigro del recalcitrante dormiente.
- Dai, alzati. Fai tardi.
- Come stai, amore?
- Bene.
- Fammi vedere.
Il silenzio non fermò la mano che alzò la camicia e abbassò pudica lo sguardo.
- È incantevole, tesoro. È matura. È incredibilmente aperta.
- Non sento alcun dolore.
- È vero! È ancora molto alta la pancia. Vuoi?
- Ti bacio!? Sì, voglio baciarti, amore. Sei stupenda.
- No, fai tardi.
Gli occhi socchiusi che già gustavano le labbra tradivano le parole.
- Sì, amore. Sei dolce. È bello.
Qualche minuto e il piacere possedeva quel corpo rendendolo ancora più splendido nella imminente seconda maternità.
- Hai perso tempo. Farai tardi.
- Corro.
Pochi minuti per le abluzioni e l’orgoglioso marito e padre felice era pronto per recarsi alla Falck.
Era lì a poche centinaia di metri dalla sua abitazione, separata solo dalla linea ferroviaria e la statale Monza/Sesto: l’acciaieria emetteva un lamento continuo intervallato, con tempi regolamentati, da urli spaventosi che nonostante il saperlo e l’abitudine, ogni volta ti stracciavano la vita.
Guardò dai vetri del balcone non c’era luce, né aria, solo grigia nebbia.
Sì, abitava al quinto piano, ma santo cielo che tempo!
- Ti raccomando, non farmi stare preoccupato. Se avverti qualcosa, corri da Lina. Non fa niente se poi risulta falso allarme.
- Aspetta, aspetta… mi sento bagnata.
- Dio mio, vediamo… Sì, si son rotte le acque.
- Corro a chiamare Lina.
- No, aspetta.
- Corro!
Non più di un quarto d’ora e stanno sulla non comoda seicento che nella nebbia impenetrabile arranca, cercando di raggiungere l’ospedale di Sesto San Giovanni.
- Armando, nasce per strada. Corri per piacere.
- Come stai, tesoro?
- Non preoccuparti, non ho dolori.
- Dio, sta per nascere.
Piangeva. Non sapeva se per paura, dolore indotto, gioia. Era a un passo dal paradiso e gli sembrava l’inferno.
- Dio, non arriveremo in tempo!
Finalmente l’ospedale, corre, parla…
- Non si preoccupi, ora è qui. Ci pensiamo noi.
- È il primo?
- No!
Solo gli occhi dell’amata, cerca e non trattiene – come ora – le lacrime bambine.
Con calma esasperante, ignorando la sua sofferenza, finalmente conducono il suo amore, con il prezioso carico, nella sala travaglio.
- Ora lei si metta qui in corridoio e attenda.
- Non può entrare stanno altre partorienti.
Il tempo si era fermato.
Doveva avvertire la Falck.
Avrebbe messo in crisi il reparto, mancando il gruista.
Solo un momento: era più importante sua moglie e il nascituro.
Questione ancora di qualche minuto e poi si sarebbe recato al lavoro.
Alle 8.20 gli comunicano che è nato un bel maschietto.
Ride e piange.
Vorrebbe gridare e si contiene.
È confuso.
- Venga a vedere sua moglie e il bambino.
Entra, è bella la sua donna.
È magnifica.
Nessuna è bella come lei.
Ride immacolata e gli mostra il bambino.
Dio mio quanto è brutto, pensa.
- È bello, Michele?
- Sì!
Non ha il coraggio di dire quello che pensa e chiederle perché è così rosso e ha la pelle aggrinzita come un vecchio.
Come se l’avesse sentito:
- Hanno detto che è molto lungo e magro.
- Si rimetterà subito, anche se pesa tre chili e duecento grammi.
- Ora vai a lavorare. Vai a mangiare da Lina, già lo sa.
- Ci vediamo nel pomeriggio.
Non vorrebbe lasciarli. Vorrebbe tenerle la mano per sempre.
Si commuove ancora a pensare quanto l’ami.
- Che bella famiglia: un maschietto, una femminuccia e la più bella delle donne.
- Sono l’uomo più felice del mondo.
Non contiene lacrime e riso mentre percorre la strada per recarsi al lavoro.
- Meno male che la nebbia mi nasconde agli occhi degli altri, penserebbero che son matto.
- Papà ti ho ridato la vita.
- Ora esiste un altro Cologna Leonardo.
- Sì, non voglio che egli sia lontano dai posti che tu hai camminato, papà.
- Deve posare i piedi dove li hai posati tu, papà.
- Tornerò a San Severo.

Avrei potuto farti gli auguri del tuo compleanno nella maniera tradizionale, Leonardo.
Ho preferito farti la cronaca delle ore intorno alla tua nascita.
Forse ti resterà molto di più.
Trentanove anni fa, le paure, le ansie, le speranze e l’amore di quei momenti impressi per sempre nella mia mente.
Grazie, figlio amato.

Michele (san severo 10/12/2009 13.17.44)

sabato 5 dicembre 2009

Egli…

Egli…

e stava morendo…

Battute di caccia organizzava…
Pascoli da brucare camminava…
Olivi e frutti da consumare piantava…
Campi da seminare arava…
Parole per conoscere formulava…
Pensieri per penetrare strutturava…
Finzioni per comprendersi rappresentava…
Agorà per governarsi allestiva…
Città di Dio progettava…

Dal divino si slegava…
Umano si proponeva…
Felice si prospettava…
Ragione invocava…
Scienza e tecnica sperimentava…
Dalla fatica si sollevava…

Figli nutriva…
D’amori si dilettava…
Benessere anelava…
Diritti e bisogni codificava…

… egli, e la vita fluiva.

Michele (05/12/2009 9.53.53)

giovedì 3 dicembre 2009

Uomo, tu sovrano...

Uomo, tu sovrano, re di tutti i re,
poeta sommo,
amore dolce ed eterno,
non lasciare che questa invocazione
resti inchiostro su carta,
non permettere che queste parole
vergate con l’anima
siano dal tempo logorate,
che versi di tanta umana fattura
vengano conclamati al vento…

Ascolta la voce dell’Amore…
La supplica dell’Amante…
Il soffio caldo del Vento…
Le lacrime della Donna…

Raccogli tanta Bellezza…
Incidi nel tuo cuore le Parole…
Inclina il tuo capo coronato all’Amore…
Il tuo sentire piega alla Poesia.

Michele (29/11/2009 19.11.51)

Il giorno cede il passo alla sera…

Il giorno cede il passo alla sera… inizia il sentire.
La sera alla notte… e la vita fluisce.
Le imposte sul mondo e il tutto mi parla.
E ti sento voce di donna, e i tuoi occhi e l’aria.
E dei cotogni l’odore alle narici assaporo…
Del mare lo sciabordio, del cielo l’immenso.
La tua testa sulle mie ginocchia accarezzo.

Michele (28/11/2009 0.10.30)

Lentamente...

Le parole mi cercano, quando penso a te, amore.
Si donano ai tuoi occhi per apparire generose.
S’incolonnano miti al profumo del tuo parlare.
Immolano, liete vittime, alla tua passione l’ardore.

Raccontano dimesse a te le pene del mio cuore.
Convogliano in te le mie temerarie passioni.
Preparano la tua anima all’essenza del mio amore.
Soggiogano i tuoi occhi alla bellezza dei miei colori.

E noi, dai loro rivelati ammaliati, i sensi obnubilati,
cogli occhi ci teniamo e a loro gaiezza restituiamo.
Le mani invano cerchiamo e il tatto a loro affidiamo.
Il sogno coltiviamo e nei loro significati vendemmiamo.

Michele (21/11/2009 20.46.13)

… ma son solo il tuo innamorato…

… ma son solo il tuo innamorato…

Pennello nelle tue mani…
Colore dei tuoi sentimenti…
Parete bianca delle tue attese…
Passione scarlatta dei tuoi peccati…
Lucciola della tua notte…
Stella riflessa del tuo amore…
Pioggia dei tuoi occhi…
Iride della tua fantasia…
Foglio immacolato dei tuoi versi futuri…
Essenza dei tuoi inebrianti profumi…
Sguardo dei tuoi occhi innamorati…
Oblio dei desideri tuoi oscuri…
Sogno del tuo vegliare addormentato…
Sapore delle tue labbra mai assaggiate…
Mascara delle tue ciglia imbellettate…
Parola della tua voce d’amore afona…

Se fossi poeta così a te mi racconterei…
E a mani tese a te in ginocchio m’approccerei…
Ma son solo il tuo innamorato…
E a pronunciar parola or mi manca il fiato.

Michele (21/11/2009 13.21.09)

mercoledì 2 dicembre 2009

Lucida follia...

Sento la vita con lucida follia, e comprendo che non mi appartiene.
Sono osservatore che la vive con lo sguardo camminandoci dentro.
Tutto si imprime nella mia memoria, che è vissuto e non osservato.
Sento con l’anima che cammina le intelligenze che si dipanano scialbe.
Provo repellenza per le mie mani che si muovono indipendenti e le osservo estranee.
Il mio corpo distaccato reclama bisognoso e mi causa pena la sua urgenza gregaria.
So di scontare pena per colpa non commessa: uno stralcio d’eternità cacciato a forza in un corpo grezzo, primitivo, perituro.
Con lucida percezione conosco la libertà dell’eterno, ma accarezzo la prigione e ne coltivo la cura.
Giardiniere pazzo, coltivo l’orrore delle erbacce e soffoco nell’incuria il fiore.

Michele (02/12/2009 19.44.24)

domenica 29 novembre 2009

Chiuso il racconto de e sul mondo

Chiuso il racconto de e sul mondo,
e de l’assaggio i frutti freschi… e
asperso di nettare la tarda sposa…
l’Amore coltiviamo… E il sorriso

dei baci… E il ronzio accaldato de
l’effusioni amorose… lava scivola
da le bocche eruttive, dolce miele.
Talamo di sospiri… E candidi lini

nel nostro scivoliamo immacolati.
Sogni stanchi e mani di seta e teli
di deliri vellutati. Tappeti, ricami
petali di rose, stendiamo… e aghi

di pini l’epidermide d’anni scorza
nei segni addolciamo. Oblio pago
recita de i sensi l’ora e sonno, lai
ottunde e l’urlo spegne. È silenzio.

Michele (29/11/2009 22.16.17)

venerdì 27 novembre 2009

C’era una volta…

C’era una volta…

Novello Esopo, vorrei iniziare questo scritto con c’era una volta…
Ma ahimè, non è una favola è una storia vera, e per di più non è ancora conclusa.
Una cagnetta di nome Muna, razza volpina, molto vispa e intelligente, insieme ad altri cani vive in una villa di campagna.
Proverbiale questa razza per la spiccata tendenza alla vigilanza e al dominio sul proprio territorio, è stimolatrice per gli altri affinché si guadagnino la zuppa.
Nessuno dei suoi colleghi è della sua statura e Muna puntualmente invia al vento i suoi feromoni, non raccolti messaggi d’amore.
Nella stessa tenuta vi sono più di una ventina di gatti.
Mentre tutti i cani con i gatti ci convivono senza alcuna difficoltà, Muna non ci riesce proprio e li attacca. Meno male che la sua statura non impensierisce più di tanto i suoi nemici.
Ad agosto quattro o cinque gatte hanno messo al mondo il frutto dei loro incessanti amori.
Trascorso qualche mese le gatte iniziano a rifare vita sociale e portano i loro figli a familiarizzare con l’ambiente.
Muna ora cambia il proprio sguardo.
Vede le mamme sempre come nemiche e le attacca, ma i piccoli li coccola leccandoli e i suoi occhi si accendono di desiderio.
Una mattina non si trova Muna.
La si cerca dappertutto ma della cagnetta nessuna traccia.
Passano tre giorni di inutili ricerche e ci si accorge che le gatte mamme lasciano attaccare alle loro mammelle la leva dei gattini precedenti.
Di conseguenza si nota la mancanza degli ultimi nati.
Quasi in contemporanea si presenta Muna molto denutrita e con le mammelle sviluppate.
Santo cielo, vuoi vedere che era in cinta e nessuno se ne accorto?
Un controllo e ci si rende conto che i capezzoli della sventurata sanguinavano.
Si insinua il sospetto.
La si fa mangiare, la si coccola più del solito, la si rassicura e lei scodinzolando conduce il padrone dai propri figlioli.
Tredici gattini denutriti che miagolavano con un flebile filo di voce.
Stavano quasi alla fine.
Ogni tentativo di restituire i gattini alle mamme naufragò per la indisponibilità delle stesse e l’opposizione ferma della mamma adottiva.
Con sotterfugi furono sottratti i gattini (poi portati in un centro), ma uno riuscì a sottrarsi alla cattura scomparendo.
Muna faceva vita sospetta.
Ora, non si fidava più di nessuno e tanto meno del padrone.
Alcuni giorni ancora e si ripresenta col gattino scomparso in bocca ormai alla fine.
Con dolcezza la si convince e lo cede.
Si sa che i gatti hanno sette vite e il gattino cresciuto in casa e in gabbia si riprende.
Ritenuto idoneo alla sua vita normale lo si rilascia.
Egli non familiarizza con nessuno e soffia tutti, ma Muna lo riconosce e incurante delle zampate lo riprende in bocca e se lo porta.
Viene seguita, ripresa, condotta nella tenuta e legata.
Il gattino ora può essere finalmente libero.
Potrebbe essere la fine della storia.
Invece Muna tenta d’ammazzarsi.
Fa cose incredibili, si è costretti a liberarla.
Corre dal gattino che ora non scappa più, gli vengono delle convulsioni.
Lei aspetta che si riprende, e stando vicino gli offre ogni cura.
Il gattino è come sospeso si lascia prendere in bocca, si fa trasferire dove lei decide, non oppone più resistenza.
A tempi intervallati gli vengono queste crisi epilettiche.
Come finirà ancora non lo sappiamo, per cui non possiamo dire né fine della favola, né fine della storia.
***
Pur non essendo noi Esopo, però, una morale potremmo trarla.
Uno, l’amore è il cemento di ogni bene, ma d’amore si può soffrire. Morire.
Due, l’amore se non è libertà è altro. Possesso. Costrizione. Violenza.
Tre, l’amore è rispetto dell’altro, senza è prigione. Catene. Malattia.
Quattro, la natura bella, dolce, regolatrice etc. La natura è violenza. Tragedia. Vince il più forte.
Quinto, senza l’intervento regolatore della ragione la natura è sopruso. Sopraffazione. Morte.
Tanto altro si potrebbe ricavare da questa triste storia, ma fermiamoci e…

Michele (san severo 27/11/2009 11.27.46)

giovedì 12 novembre 2009

La ragione, le aspirazioni e i diritti...

I diritti tutti si formano intorno alle aspirazioni dell’uomo.
Dai diritti delle disponibilità, a quelli costituzionali e positivi, tutti prendono idea e poi forma e disegno sulle aspirazioni, l’idea dell’uomo, l’idea di società e alcune volte anche dei bisogni.
Senza alcuna aspirazione esisterebbero diritti?
Saremmo tentati a rispondere di no, invece un diritto esiste indipendentemente dalla volontà dell’uomo ed è quello della natura, che tradotto in umano possiamo definirlo della forza.
La natura, operando in tutte le sue manifestazioni la selezione, esercita il diritto del più forte.
Sopravvive e si riproduce solo chi è più forte, più adeguato alle situazioni date.
Tutti gli altri diritti sono figli della volontà, del nous dell’uomo.
I diritti crescono, cambiano, muoiono in base alle percezione che l’uomo ha di sé e della sua collocazione nello spazio e nel tempo.
Certo la mia esposizione risente della sintesi forzata e un po’ grezza, ma efficace al fine della comprensione del ragionamento che voglio fare.
Possiamo ancora semplificare dicendo che da una parte esiste la natura e dall’altra l’uomo che con il nous cerca d’intervenire sulla natura per correggerla.
Il diritto “naturale” – nel senso sopra riportato e non nell’accezione che man mano è venuto nella storia maturando, assumendo – e il diritto della “ragione”, anche qui vale la stessa precisazione.
La ragione dei diritti dell’uomo che cerca di modificare la natura del diritto del più forte, della selezione.
Hic et nunc nel mondo in generale e da noi in particolare, cosa sta accadendo?
I popoli, le persone (non uso il termine la gente perché in esso vi è una percezione degradata dell’uomo nell’accezione corrente) sembra abbiano rinunciato a percepirsi portatori di diritti. Non di nuovi, ma addirittura ripudiando quelli già conquistati.
L’uomo ha rinunciato a vedersi in prospettiva, quasi come se non avesse futuro.
Non voglio analizzare le ragioni, non mi propongo questo con lo scritto, ma la crisi ha portato a considerare fallace l’intervento dell’uomo e così egli abdicando alla ragione ha lasciato alla natura il compito di operare.
In natura spazi vuoti non esistono, essi vengono subito occupati.
E così la natura sta riprendendosi il dominio attraverso la forza. E in una società già strutturata chi ha la forza?
Chi ha il potere economico, è chiaro!
Il potere economico si è costituito diritto assoluto, naturale spiazzando tutti gli altri diritti che sono della ragione.
La ragione ha fallito.
Ha reso gli uomini uguali.
Addirittura un handicappato, un forestiero, un miserabile che vuole accampare diritti, considerandosi uguale agli altri.
Non esiste, questi debbono sì esistere, ma se è possibile e con gli avanzi.
E via con le elemosine che tutti ben conosciamo.
Chiudo la parentesi e riprendo il discorso.
Il potere economico, percependosi diritto naturale – come abbiamo visto -, impone la sua legge che è la selezione senza regole.
Vince chi è più forte.
E chi è più forte anche nel potere economico?, colui che non si sottopone a regole.
Ecco predatori, fuori legge, gangster che prendono il potere e dettano l’unica legge per loro rispettabile: quella del più forte.
Anche nel diritto privo di diritti vince quello naturale della forza.
Questa in maniera sommaria e con tutte le approssimazioni di uno scritto senza pretese alte, è la situazione oggi.
In questo contesto l’unico diritto sopravvissuto della forza ha occupato tutto il potere. È diventato monarca assoluto.
In quasi tutti i paesi servendosi della classe politica, assoldandola; in Italia gestendolo direttamente e arrogandosi il diritto codificato incostituzionalmente di nomina della stessa.
Il novo corso, un fiume in piena che non trova ostacoli.
La nuova selezione naturale non risparmia, non fa prigionieri.
Miete.
Si salva chi è nella satrapia e chi sottostà al potere del satrapo.
L’uomo privo di prospettiva di sé, di futuro è frastornato, protesta anche ma gli sembra ineluttabile questo corso.
Coloro che ancora non vogliono piegarsi alla forza dell’unico diritto: nel girone del limbo corrono dietro a indefinita cosa che non è bandiera, vessillo, insegna.
Hanno perso le coordinate.
Hanno gettato via le ideologie e con esse le idee.
Si son liberate dell’acqua sporca e del bambino insieme e brancolano sbandati vivendo al soldo del giorno.
La ragione aveva promesso la felicità ed ha fallito: il pensiero che domina.
L’illuminismo padre delle idee che hanno strutturato lo stato moderno, ha tradito le aspettative.
Resta lo stato di natura, accontentiamoci delle elemosine che la Forza unico diritto elargisce come e quando può.
È vero che la ragione ha fallito, oppure è vero che ha fallito ciò che si era costruito in nome della ragione?
Per me la seconda ipotesi!
Le idee dell’illuminismo che non ruotano intorno allo sviluppo progressivo, ma solo all’uomo, sono non solo ancora valide, ma conservano immacolate tutta la loro potenzialità.
Quindi le correnti di pensiero che l’illuminismo ha prodotto restano valide e tutte da sviluppare.
Liberté, Egalité, Fraternité sono ancora il programma e il futuro dell’uomo.
Sono ancora le aspirazioni dell’uomo e quindi la fonte del diritto.
Se riusciamo a comprenderlo e intorno alle idee politiche che l’illuminismo ha prodotto, riprendere il cammino ci sarà futuro per il pianeta e l’umanità.
Nel caso contrario non ci sarà futuro per nessuno, neanche per le satrapie e i satrapi.
Corriamo dietro il pifferaio che felice crede di salvarsi, ma da quella rupe precipiterà anche lui.
La natura che opera la selezione, opera anche la estinzione.

Michele (san severo 12/11/2009 12.07.30)

lunedì 9 novembre 2009

Homeless…

Homeless…
Clochard…
Senzatetto…
Questo ora sono.
Sono nei luoghi che ho frequentato e non li sento.
Non li riconosco.
Mi arrivano voci che non ho mai ascoltato.
Ho freddo.
Nessuno mi porge la mano.
Un poco di calore…
Visi estranei mi percuotono le pupille…
Bocche formulano suoni indistinti…
Non comprendo.
Tutti tendono la mano a me che non ho niente.
Le mostro nude e non mi credono… neanche bugiardo.
Prosciugato… arso.
Gli occhi ispidi di lacrime cristallizzate, mi perforano le palpebre…
Fissità allucinata:
Osserva il nulla e si perde…
Non vede, non sente…
Non prega…
Sconosciuto.
Superfluo.
Dimenticato.
Ho sonno.
Sonno.

Michele (09/11/2009 20.45.16)

martedì 3 novembre 2009

Meditazione

Asceta alla tua fonte battesimale avvicino la Mente.
Anacoreta del deserto al tuo seno m’aspergo esseno.
Viandante al sole de la vita arso il passo al tuo cedo.
Mendicante dalla tua purpurea bocca berrò pensieri.

Aedo dei tuoi canti gli inni e le lodi eleverò al cielo.
Esegeta dei tuoi libri divulgherò il Logos ingannato.
Maieutico dal tuo grembo partorire farò il nascituro.
Ministro dal tuo petto cibo avito trarrò primi vagiti.

Abbracciato a la Morte l’ultimo per te sarà pensiero.


Michele (04/11/2009 6.57.56)

martedì 27 ottobre 2009

Domenica 28 ottobre 1962

Domenica 28 ottobre 1962

Domani mercoledì 28 ottobre 2009, quanti anni.
Quarantasette compiuti.
Una vita.
Io avevo quattordici anni e tu cinquantasei.
Io un ragazzo che non si sentiva amato, tu un uomo non stanco ma malato, dal cuore infartuato.
Da qualche anno, padre mio, ti ho superato.
Son diventato il tuo fratello maggiore.
Ne ho compiuti sessantuno a marzo.
Forse oggi mi dovresti quell’ascolto che non hai mai dato a me, né a chi ritenevi a te inferiore.
Molti in verità.
Eri generoso assai, vero.
Avevi un cuore d’oro come tutti affermavano, certo.
Ma praticavi delle ingiustizie enormi, evidenti, esagerate ma che a te sfuggivano.
Non le vedevi.
Certo nel tuo mondo tu avevi responsabilità di ogni cosa.
Il patriarca che governava educando e rigoroso applicava le regole con occhio di riguardo al proprio sentire.
Chissà, se litigheremmo!?
Peccato che la sorte non ci abbia dato questa possibilità di riscontro.
Incredibile, o padre, come somigliamo a coloro dai quali vorremmo prendere le distanze.
Ho tenuto sempre in mente le poche cose che mi hai detto nel breve tempo che il fato ci ha concesso di vivere accanto.
Mi sono state utili e mi hanno indicato la strada che non dovevo percorrere, ma m’hanno anche spinto nei confronti degli altri a comprendere come non dovevo comportarmi.
Tu eri padre e padrone, le mie tendenze mi porterebbero a te.
Mi scopro a pensare quello che certamente avresti pensato tu.
Però interviene la mia ragione e il nous mi corregge.
È stato, è un dibattito continuo tra me e te.
Ho cercato di non imitarti seppur somigliandoti.
Vorrei ora che tu poggiassi la testa sui miei ginocchi, padre, e mi parlassi.
E mentre io carezzo i tuoi canuti anni, consegnassi a me le tue angosce custodite nel silenzio del tempo.
Quante cose avresti da dirmi.
Domande io da farti.
Antico sei stato tu, antico pure io, padre.
Ma quanta diversità nell’espressione della nostra.
Certo non è possibile nella realtà che questo accada, ma se il pensiero formula: la realtà potrebbe solo essere una cattiva imitazione.
Per tanti anni sei venuto nei miei sogni e non hai mai risposto alle mie domande.
Impassibile nel tuo ostinato silenzio.
Poi quand’io ti ho sopravanzato in anni, cosa che non avevo mai ritenuto possibile, tu ti sei sciolto e hai rotto il silenzio.
Ora ci frequentiamo poco nel sogno è vero, ma ci parliamo e tu mi ascolti.
Hai cercato anche delle giustificazioni che non condivido pur comprendendole.
Ma questi ragionamenti abbiamo tempo per farli.
Tu per il tempo che il fato ha assegnato a me, perché vivi e esisti nella mia memoria.
Io per quello stesso tuo.
Cesserò io e cesserai tu.
Non si è ancora sciolto il vincolo, padre.
Neanche la morte può sciogliere ciò che la vita ha generato.
L’uomo è perdente contro la Morte, sempre.
Ma la sconfigge nella Mente con l’arma dell’appartenenza che è vita traslata.
Oggi, tuo quarantasettesimo anno della tua esistenza in morte, o padre mio, mi trovo a sentirti ancora così vicino e palpitante.
Più di quanto gigante immobile sul letto ti adagiai con il tuo flaconcino di pillole stretto nella mano.
Dice un vecchio adagio che quanto più ci allontaniamo dalla fanciullezza tanto più la viviamo reale, struggente.
È vero, padre!
La sento vicino e cogente, manca del dolore della costrizione però, ed è dolce come cullarsi tra le tue braccia che non ricordo l’abbiano mai fatto.
A te lunga vita nella mia, padre.
Siamo memoria.
Al di fuori nulla siamo.
È dolce tenerti per mano, fratello ora minore, nel giorno del tuo anniversario.
Vale.

Michele (san severo 27 ottobre 2009 - ore 8.43.09)

domenica 25 ottobre 2009

Ora…

Ora…

La mia anima: deserto che conserva graffiti scavati nella roccia graffiata dal vento incessante.
Il mio sguardo sofferente, civiltà sepolta.
Detriti lacrimano i miei occhi, pioggia della storia dei vivi.
Assente la mia Mente negli occhi di mio figlio.
Arso il mio pensiero inutilmente si bagna nell’acqua stagna della vita.
Frigido il piacere attraversa il mio corpo... e accarezza la fine.
Nessuna storia narrerà la storia.

Michele (san severo 25/10/2009 19.58.52)

giovedì 22 ottobre 2009

Sfrido

Non volevo alcuno spazio per me.
Mi ci hanno messo mio malgrado.
Non ho pregato nessuno di portarmi qui.
Non m’hanno chiesto permesso per scaricarmi nella mischia.
Mi trovo abitante mio malgrado.
Passeggero che non ha pagato il biglietto.
Esistente contro voglia.
Superfluo nell’essenza.
Residuo di sfrido non riciclabile.
Aporia del sensibile.
Ho incespicato fin dai primi passi e m’hanno frustato.
Mi son tirato in disparte e disprezzato.
Da soma a gaudente: nessun pensiero.
Il pensiero cammina con l’esistenza e la vede.
Gli incauti l’ignorano, si rimirano e non ti riconoscono.
Ne avvertono il disagio e ti disprezzano.
Nelle ombre della sera e rasentando i muri mi son raggiunto.
Abito la casa con le imposte chiuse.
Esco a fare la spesa e godo il cilicio della comunanza.
E trascino il giorno a sera.
Ora dormo e realizzo il pensiero.

Michele (22/10/2009 16.39.28)

lunedì 19 ottobre 2009

L'uomo, il cane e la cipolla...

Questa è storia vera.
Bambino, non avevo più di sette o otto anni, in campagna da mio padre lavorava come bracciante giornaliero un certo Giuseppe.
Uomo di legno.
Non aveva un’onza di carne addosso.
Ossa e pelle.
Pelle olivastra, molto scura.
Una pertica.
Padre di numerosi figli e due di questi, Michele e Domenico, lavoravano anche loro nelle terre paterne.
De Domenicis faceva di cognome, ma lo conoscevano col soprannome di “zecchinetto”.
Non so cosa volesse significare di preciso il nomignolo, ma penso che avesse attinenza con la moneta lo zecchino.
Gran lavoratore.
Dove prendesse le energie per lavorare: un mistero.
Nella pausa dalle dodici alle quattordici d’estate, di un’ora sino alle tredici d’inverno, per consumare il misero pranzo che si portavano in campagna, Giuseppe veniva spesso invitato dai colleghi e commensali a raccontare la sua storia.
Non si sottraeva, la raccontava con dovizia di particolari e gran divertimento suo e dei cafoni che si ponevano in circolo, seduti a terra, a consumare.
Giuseppe aveva lavorato per moltissimi anni presso la distilleria della famiglia Ceparano.
Famiglia napoletana che vantava antica nobiltà e di condizione molto agiata.
Aveva tre distillerie a San Severo e altre a Nocera Inferiore (NA).
Già il papà di Giuseppe aveva lavorato presso la stessa e, come spesso succedeva, il figlio ha prima accompagnato il papà, poi ne aveva preso il posto.
Era nato Giuseppe nei bassi che la distilleria faceva abitare ai propri lavoranti.
Case non si potevano chiamare e baracche nemmeno.
Erano una via di mezzo.
Senza acqua, fogna e servizi che erano un lusso.
E così Giuseppe conduceva la sua vita tra fatica e poco cibo.
Gli capitò la disgrazia di sposarsi e il misero obolo che era la sua retribuzione diventava sempre più insufficiente.
Vennero al mondo i primi figli e con essi la guerra.
Non si mangiava.
Ci si nutriva di verdure dei campi e qualche tozzo di pane.
Certo la penuria non sfiorava il suo datore di lavoro don Vincenzo Ceparano che tra le tante sue qualità aveva la passione per i cani che Giuseppe accudiva.
Il suo cane preferito era un pastore tedesco assai bello che veniva nutrito a maccheroni e carne.
Don Vincenzo chiamava Giuseppe e gli dava il piatto condito, anche con formaggio, da portare al suo cane che schizzinoso a volte annusava e non mangiava.
Troppo per il povero Giuseppe al quale non solo era quasi sconosciuto il sapore della carne, ma che aveva dimenticato quello dei maccheroni e ora digiunava.
Aveva sempre messo quel piatto davanti al cane senza pensarci più di tanto, Giuseppe.
Ora incomincia a pensare che quella bestia non mangia per abbondanza mentre i suoi figli piangono per fame.
Egli che non può consumare più di una cipolla al giorno, quando c’è grascia.
No, non è bene così!
S’indispettisce Giuseppe, e un giorno chiede al cane te lo mangi o come gli altri giorni lo fai sprecare?
Il cane lo guarda e se ne va.
Giuseppe in un batter d’occhi svuota il piatto.
Come si sente bene.
Gli vengono le lacrime agli occhi per la sazietà.
Il giorno successivo accade la stessa cosa e poi il terzo.
Il cane ora si mette davanti a Giuseppe e aspetta, ma nemmeno una briciola va a lui.
Zecchinetto l’osserva, tira fuori la cipolla dal tascapani e gliela lancia.
Il cane l’annusa e la lascia.
“Ah, non la mangi?, te la conservo per domani!”
Nemmeno i giorni successivi il cane la mangia e incomincia ad abbattersi.
“Giuseppe, vedo il cane un po’ abbattuto, che sarà?”, don Vincenzo.
Giuseppe, “Don Vincenzo, a mangiare mangia. Non lo so”.
Avviene il miracolo, il cane come Giuseppe gli rimette la solita cipolla davanti, ne fa un boccone.
È sollevato Giuseppe, ora finalmente il piatto al giorno è assicurato.
Trova la maniera di portarlo a casa e così anche la moglie e i suoi figlioli gradiscono.
Il cane fa progressi e incomincia a risollevarsi.
Si rimette in carne e anzi migliora l’aspetto.
La cipolla quotidiana gli fa bene.
Passa qualche tempo e un giorno don Vincenzo stava dando delle indicazioni a Giuseppe circa il lavoro.
Passano dalle parti del cane che fa loro le feste.
Dio leva il senno a chi vuol perdersi.
Giuseppe, orgoglioso, tira fuori dalla tasca la cipolla quotidiana del cane e grida: don Vincenzo guardate!
Lancia la cipolla.
Il cane la prende a volo e ne fa un sol boccone.
Don Vincenzo, “Come il mio cane mangia le cipolle?”.
“Sì, don Vincenzo!”
Non c’è bisogno di spiegazioni, non è uno stupido Ceparano.
All’istante licenzia Giuseppe e gli fa lasciare l’abitazione.

Michele (san severo 19/10/2009 12.40.24)

domenica 18 ottobre 2009

Nuda…

Nuda…
di lacrime vestita
le tue riversano sui miei
occhi stanchi
luce riflessa…
vita occultata riprende…
sudore
di linfa
anima labbri rinsecchiti
e gemme abbozzano l’inverno
disciolto al calore
pensieri tuoi accesi
gemme passate primavere

Michele (18/10/2009 14.01.35)

lunedì 12 ottobre 2009

Donna…

Donna…

La tua pelle della seta i brividi odo.
Luce della bellezza gli occhi cattura.
Nelle pieghe lascio il disio dell’ape.
Le curve assaporo del tatto le mani.
Il talamo della tua carne i profumi.
Ombra mi sovrasta greve il piacere.
Pudica il fiore dischiudi all’invito.
Sguardo musica avita in te spengo.
Eterno nei sensi lo splendore lasci.

Michele (12/10/2009 20.38.00)

domenica 11 ottobre 2009

Dolore...

Chissà…!
Se il Dolore versato dagli uomini s’aggrumi in qualche posto?
Se non risieda lì, in attesa di risarcimento?
Riscatto…
Qualcosa che gli dia senso?
È possibile ch’esso, prezioso di tanta fatica, stenti, ansie, angosce…
Dolore…
Si dissipi nel nulla?
Che non resti in luogo sconosciuto in attesa d’utile impiego?
Cosa che giustifichi, ricompensi…?
Certo, non coloro che l’hanno sofferto… speranza vana.
Ma altri?
Che poi si possa essere consapevoli o ignari di tanto beneficio…
Di lacrime - oceani estesi - di sofferenze tante, larghe e profonde…
D’esser affrancati da giogo così grave…
Non è necessario.
Importante.
Essenziale sarebbe che non andasse perso.
Che a Patimento non supportasse ancella:
Beffa…
Vacuità…
Nulla…
Il Niente…
Speranza, catena inane…
Dolore, anche questo.

Michele (san severo 11/10/2009 10.55.43)

mercoledì 7 ottobre 2009

Cogito ergo sum

Cogito ergo sum.
È l’uomo si scoprì pensatore…
Tutti…
Nessuno escluso.
Così l’universo umano man mano andò sempre più caratterizzandosi, fino a divedersi in due:
l’uomo pensatore escatologico;
l’uomo pensatore scatologico.
Il primo parla al mondo con il pensiero.
Il secondo olezza il mondo con il proprio afflato.

Michele (07/10/2009 9.48.47)

Amoralità...

Ore di pensieri assenti,
ne la carne turgida, te
smisurata, organo sento
Amore, ritmico pulsante
eiaculato, soffio movenze
ancestrali disio, spegne.

Michele (03/10/2009 18.50.12)

giovedì 1 ottobre 2009

Pensieri...

Voi che lì rinchiusi state, oh, pensieri,
ne l’amati, sudati… sofferti libri miei;
voi, tutti imperituri, che né spazio, né
tempo vi scardinerà vergati; voi, ch’io

ognun su pagine ho posseduto…, tutti
a me sopravvivrete. V’ho assai usato,
frequente il caso più ché pe’ intelletto
adoprati, or sarò da voi sopravanzato.

Oh, parole!, voi ne’ libri mii contenute
e di lettur fermate, voi che di governo
m’avete usato, pur possedendov’io, di
me fora, da li domini mia a or liberate,

lì, cosa farete? Altri, duttili, da plasmar
modelli troverete? Alcun, statur sì forte,
a venerar certo ponga che Vi si rispetti?
No che sia, di vivo rumor consunte, che

or voi stanche, cammin di gambe prive,
passo cederete a voce indistinta, eco di
silenzio greve? Ei, sì, crepitio di nessun
fuoco, suon assordante di parola negata.

Michele (01/10/2009 19.01.19)

domenica 27 settembre 2009

Pochi dì ancora

Pochi dì ancora
E il primo
Sarà dell’eterno
Soffio
Anni che il “cenere
Tuo muto” senz’ansia
Vincerà infiniti

Perso il presente
Oscuro
Del tempo affanno
Vano
Niente dell’umano
Memoria negletta
Sfiorerà la vesta cessa

A ore
Sgradevole tumulto
(Passi superflui
Ricordi rabberciati
Dolori sentiti
Pianti simulati
Preghiere abusate)
Affollerà rovinoso
Inutile
Il silenzio agognato
Cercato
Dal lucido gesto
Trovato
Per sempre afferrato

Comprenderà l’indegna vita
Rigettata
Dallo sconfinato amore
Che nessun pulsante
Ardore
Mai più
Scalderà a te
L’abbandonato
Cuore

Certo
Creatura affrancata
Benigno con te non è stato
Il fato ripudiato
Tutto egli ha ordito
L’aspetto tuo graziato
D’alcun travaglio
Risparmiato
Pure l’anima ti ha traviato
La maternità
A ognuno affabile
Con te ingrata

Oggi
Pur io conscio
Del monito della Yourcenar
“La memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero
abbandonato, dove giacciono senza onore i morti che essi
hanno cessato di amare. Ogni dolore prolungato è un insulto
al loro oblio.”
Partecipo dell’orgia
Non contrito di tanto agape
Addio
(Michele, lunedì 28 settembre 1998 ore 10,54)



Breve nota

Il 17 settembre del 1997, Marilena, moglie di mio fratello Giovanni, tentava il suicidio lanciandosi dal terrazzo di casa.
Non moriva immediatamente, ma dopo lunghi giorni d’agonia.
Giorni durante i quali nessuno ha potuto parlarle.
Tutti consideravano il suo corpo, nessuno la sua anima.
Fui preso per pazzo sconsiderato da tutti: familiari e medici.
Medici che la ricongiunsero pezzo a pezzo, s’erano messi la coscienza a posto: l’avevano ricomposto il corpo, anima lei non ne aveva.
Moriva, dopo quali sofferenze, nessuno lo sa, il 10 ottobre.
I genitori mi chiesero un epitaffio da scrivere sulla sua lapide.

Quanto greve, tragica
è stata la tua esistenza
in vita, tanto lieve, quieta
sia la tua esistenza
in morte, Marilena,
dolce creatura dalla vita
breve, spezzata.
(Michele, venerdì 10 ottobre ’97 ore 9,00)

Non fu scritta sulla sua, forse per vergogna.
Tutti passando davanti a quel loculo avrebbero compreso il gesto insano.
Forse questa la motivazione.
A circa un anno dalla morte, fervevano i preparativi dell’anniversario.
Tutti, anche gli inconsapevoli colpevoli, partecipavano dell’orgia commemorativa.
Il dolore per quella donna sfortunata, mi spinse a scrivere ciò che avete letto.
Tutti i giorni lei visita la mia Mente.
Io la sua Memoria.
Il silenzio è oro…

Michele (san severo 28/09/2009 8.15.56)

Iniziato dal vento…

Iniziato dal vento…

Ogni genitore credo abbia chiesto al proprio figlio ancora bambino di fargli un servizio, con la raccomandazione di far presto, non fermarsi a giocare per strada e di non “incantarsi”.
Vai a comprare il giornale, le sigarette, all’alimentari… vieni presto.
Ti raccomando…
A me quando i miei genitori ordinavano qualcosa, la raccomandazione era: vai piano, non correre, se torni con i ginocchi sbucciati ti do il resto.
Non sudarti, ti ammali…
Ero vento.
Ovunque mi chiedevano d’andare era una corsa di qualche minuto.
“Michelino, mamma, ancora non vai a…”
“ No, mamma, sono tornato. Ecco…”
Mio padre, l’ho compreso solo dopo: molto dopo, alcune volte s’inventava una commissione per misurare il mio tempo e ne rideva.
Avevo il mio cavallo sempre sotto; bastava che gli dessi una pacca sulla gamba; scuoteva la testa, un leggero nitrito e partiva come il vento.
Uno stallone bianco: testa alzata, criniera al vento, coda appena appena sollevata, narici aperte…
La libertà.
Sergio, sauro con una stella in fronte bianca, il solo garretto sinistro pure di bianco macchiato, un gigante.
Il cabriolet (sciarabbà) due posti con mio padre e me volava.
Ci incrocia un carretto, Sergio nitrisce, vuole girarsi, mio padre cerca di tenerlo a freno, scarta violento, ci fa ruotare come trottola, ci scaraventa nel canale di Santa Maria.
Si sfila i finimenti e corre: libero, veloce… nel vento.
Quando arrancando arriviamo alla masseria, Sergio è lì maestoso e fiero.
Non teme mio padre: Sergio è libertà.
Forse gli è costato la vita quel suo atto di superba libertà.
Non l’ho più visto e a mio padre non si chiedeva.
Ma io l’ho ammirato: gli sono stato sempre vicino.
Nella corsa furiosa, dirompente, gioiosa sentivo la libertà.
L’ho compreso molto tempo dopo, era una maniera d’assolvere l’ordine gratificando la mia libertà.
In una di queste mie corse commissione, non avevo dieci anni, percorrevo via Zingari, oggi via Duca Amedeo D’Aosta, ero all’acme della velocità, mi sentivo vento:
correvo, correvo… correvo.
Più correvo e più mi piaceva…
Sentivo fremiti nel corpo…
All’improvviso, arrivato a Largo Sanità, una piazza molto estesa che ospitava le fosse dove si stipava il grano, una sensazione sconosciuta all’inguine m’ha fatto piegare su me stesso, facendomi portare lì le mani per arginare la tempesta di piacere che mi sommergeva.
Mi fermai un poco, non capivo…
Quel piacere andò spegnendosi.
Era stato bellissimo.
Ripresi a correre con tutta la foga per riprovarlo, ma non mi capitò mai più.
Spesso ci pensavo e ci provavo a correre, senza l’esito desiderato, però.
Quando più grandicello iniziai le pratiche che fanno diventare ciechi gli adolescenti, me ne ricordai del sapore.
Avevo provato nel vento il mio primo piacere.
Sono stato iniziato dal vento.
Sarà questa la motivazione che spinge i cavalli liberi a correre?
Chissà!
Che non sia la libertà che solo il vento con sé porta a dare il sapore del piacere?
È il massimo del piacere non è l’orgasmo?
Possiamo allora dire che libertà è orgasmo?
E nel vento libero ho ripreso a camminare.

Michele (san severo 27/09/2009 10.34.29)

sabato 19 settembre 2009

Questa la mia mano, oh dolce melagrano

Questa la mia mano, oh dolce melagrano!
La tua grazia coglierò, e con spago di ori,
amor lieve t’avvolgerò, e per il peduncolo
alla trave del mio cuor sospesa ti eleverò.

Al riparo di tutte le intemperie te saporita,
oh amata sposa, augurale frutta: passione
d’amori gelosi e… custode d’accesi rubini,
bocche rosse di profondi piaceri… porterò!

Ne la soffitta, mansarda abusata e d’Amor
alcova, lì, su in cima, tutti i giorni, l’ore e
minuti m’affretterò, e salirò i gradini de il
mio altare… e di passion teco mi giacerò.

Le tue pene spolvererò e da la tua mie ansie
disseterò, e di baci assaggerò gli acini: versi
eterei di zampillante amor, e d’occhi sinceri
sguardi amerò e vesti profumate indosserò.

Michele (19/09/2009 23.46.17)

venerdì 18 settembre 2009

Rosso fuoco, i riccioli aprivano

Rosso fuoco, i riccioli aprivano
a efelidi accese luci, e brucianti
soli su schiusi labbri appoggiati
a ninfe scarlatte, turgida attesa.

Vision paradisiaca d’incredul cor,
desii, occhi immaturi, tempestano.
Immobili palpiti d’impetuosi echi,
su ‘l gargarozzo il fiato arrestano.

Tal mi cala or ricordo, avanti a la
immago, lentiggin tue splendenti,
e testa ricci fuoco, e saette cerulo
sguardo, e imberbe gioia assapor.

D’anni bianco e tanti, la dimanda
sovviemmi ancor, com’or le sarà?
Niuna l’arriverà sì bella, solo età!
Vero, magia scipperebbe a l’idea.

Michele (18/09/2009 19.13.23)

lunedì 14 settembre 2009

Ti dichiarasti: “T’amo!”, Sorriso

Ti dichiarasti: “T’amo!”, Sorriso
s’affacciò e al mondo alitò rose.
Idillio di talami, distese, monti e
valli e mari s’offrirono a Amore.

Tu, Fiore virgineo, d’usato cor,
a Dio la salma usa consegnasti.
E a le figlie di padre speranzose,
ignota pena, novella speme desti.

Dolor di lacrime, furtiva salvezza,
offristi. Occhio nuovo presentasti.
Di luce nova ti spalmasti e carne,
ora, a ara usi, offri cercati martiri.

Aedo aggraziato respir ogni creato,
amor straziati più no credi e senti,
e danzi gioie di primavere stanche,
sognando autunni di inverni verdi.

Michele (14/09/2009 9.09.51)

sabato 12 settembre 2009

Sciocca presunzione d’amore

Sciocca presunzione d’amore

Arriva e ti lacera come carta al gelo lasciata.
Lo strappo lo senti che ti tronca violento scardinandoti i nessi.
Sai che nulla è niente può cancellare la legge non scritta della vita.
Ti sei tanto volte piegato, te ne sei fatto custode ragionevole.
Quando sembra che tutto tu abbia provato, e a ogni male vaccinato, anticorpi prodotto…
Sopraggiunge e come sferzata a tradimento stoccata, ti toglie il respiro e sai che le sopravvivrai.
Ti duole e ti torce budella e respiro: oh Dio!
Oh Dio, invochi.
Non l’avevi bandito dalle tue invocazioni?
Sì!
Perché ritorni a illudermi, beffardo?
Non ti ho tante volte invocato e nulla mi hai dato?
T’ho pregato e tanto!
Davanti all’effige tua muta lacrime e lacrime ho versato.
Di padre, di madre, di ogni dolore… e tutto hai ingoiato.
Lacrime e gioie, speranze e disperazione.
Preghiere e sospiri.
Di me t’ho nutrito e mai segno m’hai dato.
Impassibile del mio fiele ti sei abbeverato.
Senza risentimento per lungo tempo ti ho ignorato e pianti disperati solo a me ho elevato.
Eppure stanotte e oggi e tutt’ora t’invoco alla speranza di niente aggrappato.
Hai detto che colui che ha fede in te può smuovere montagne.
Ebbene, io non ho fede, o Signore!
Non potrò mai smuovere neanche me stesso se non con la volontà di ferro che nel tempo ho usurato.
Ma tu che hai fede anche per me, ascolta il suo dolore, Signore.
Dalle tutto ciò di cui lei abbisogna.
Se la vita non può più essere sua, dalle la bellezza.
Tutto quello di cui lei abbisogna per condurre serena i suoi giorni.
Io che son corpo le do il mio che già d’ora lei può disporre.
Offerta vana, lo so.
Inutile preghiera…
Sciocca presunzione d’amore.

Michele (12/09/2009 21.55.11)

giovedì 10 settembre 2009

Or che Musa dal sonno levata

Or che Musa dal sonno levata,
ha tuonato e voce ha innalzato,
il cor d’Amore è sublimato e
danze di sensi e trombe e fiati.

Labbra melagrano ha gustato, e
riso, magie, suoni e canti; giochi
baciati di veli speziati, e pascoli
discinti passi, attardati, estasiati.

Passione riprende parole spente,
e soffici nuvole, d’alcova pareti,
a Eolo tendono gli orli, ricami di
danze celesti d’amore immortale.

Michele (09/09/2009 23.24.34)

mercoledì 9 settembre 2009

A l’Amazzone caduta da cavallo…

A l’Amazzone caduta da cavallo…

Eros de l’arco braccio tese, e Cupido
carne toccò dov’or ferita più no regge.
Lacrime, amor furtivo, l’irroran liete,
e spasmi di sopiti piacer la ridondano.

Cor, vissuto d’anni e traversie, asperge
rigoglioso a nuova vita, pascoli stanchi.
Usate erbe e membra al tempo giacenti,
rinsecchiti rami, bocci d’or germogliano.

Meminisse, sofferse e cagion tante, e
mura frappose, e di Mente e di Ratio
operò frattura. Alta in cerebro trasmigrò
anima. Causa in sé operosa cure ascose.

Negletto il tronco di scisse virtù inorgoglì,
e di fieri orpelli e fatui mutui il petto ornò.
Destrier s’impettì e soma appesantì e vane
eruzioni: immensi spazi la disfatta ricoprì.

Tempo i fianchi lavorò, amazòs disarcionò,
e, appiedata e a l’occhi vulnerabile, Amore
dardo scocco al cor mortale, e sangue cola.
Gioie, ansie, dolor rappreso, spacco gronda.

Michele (09/09/2009 10.23.37)

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venerdì 4 settembre 2009

Del seno spuma di coppa nutro lo sguardo

Del seno spuma di coppa nutro lo sguardo
La parola langue al derma stende l’ansia e
Sospir muggiti aviti di gemiti vibran l’aera
Desir novelli di armeggiar sopiti or ritorno

Lembo d’infinito altar nunzio sacrificale
Penisola d’empireo ascesa celestial perduto
Vetta orgogliosa di papille al soffio gentil
E lambiti tocchi elevan piacer ruggin passa

Or com sasso d’acqua stagna i cerchi aculei
Fremiti percorron l’intero e passion riscalda
De lo splendor turgido riempie anima cor e
Corpo ansioso d’amor penetra pago il desio

Michele (04/09/2009 11.26.26)

martedì 1 settembre 2009

Amore

L’uomo nella sua temporaneità è finito.
Anche nell’essere, nella sua corporeità è breve.
Limitato dallo spazio e dal tempo in cui è.
La tecnologia ha accelerato il mondo e quindi l’uomo, ma nonostante questo, egli resta compreso nella brevità della sua presenza.
Ogni sua manifestazione risente della brevità e della finitezza.
Tutte!
La sua nascita e la sua morte.
Le prossimità parentali, le amicizie, le conoscenze, la professione, i mestieri… et cetera.
In una sola cosa è illimitato e infinito, nella capacità d’amare.
Cioè, non è limitato dalla sua corporeità né dalla sua finitezza quando è Amore.
Egli può plasmare se stesso su tutto solo amando.
Si potrebbe obiettare anche odiando, ma l’odio è un sentimento produttivo e per essere efficace deve colpire.
Dovendo ciò fare rientra nella spazialità, nella temporaneità e nella fisicità.
L’amore no!
L’amore è sempre produttivo senza limiti di spazio, tempo e fisicità.
Arriva ovunque e non deve necessariamente consumarsi.
Produce effetto anche restando in potenza.
Non ha la necessità dell’atto.
Questo lo differenzia da qualsiasi altro sentimento umano.
Allora l’uomo ha realizzato il divino, solo nell’Amore.
Amore è il dio dell’uomo.
Dio è amore.
Nell’amare l’uomo si fa dio.
E Dio non ha bisogno di incarnarsi di possedere per essere.
Ama ed è di tutti.
Senza limiti.
Nessuno!
Certo questo ragionamento incontrerà infinite tesi contrarie e anche di molto valide.
Ma nessuna potrà inficiarne la validità.
Di amore potrà appropriarsene ogni ideologia, religione, fede, dogma e tutte avranno le loro valide ragioni.
Amore, però, è e resterà l’uomo che si è elevato al di là della sua corporeità, al di sopra della sua finitezza.
Chiunque dà amore, trasmette amore è toccato dal divino.
Ma il suo divino è la manifestazione più terrena dell’uomo.
La più carnale.
Necessaria.
E chiunque oppone una morale a questo, mette l’uomo sotto protezione.
Lo limita nella sua libertà.
Imprigiona l’uomo e lo tira giù dal suo volare alto.
Amore è libertà.
E poiché la libertà è la tensione sempre presente nell’uomo, la libertà come unica morale.
Etica.
Etica è amore.
Il massimo dell’eticità: nell’amore.
Amore unica etica dell’uomo.
Amore.

Michele (01/09/2009 10.34.43)

domenica 30 agosto 2009

Catene

Catene

Catene di fili dolci e parole udite
Alleanza aggraziata di suoni inascoltati
Sguardi limpidi di distese sconosciute
Baci inconsunti d’assenze meditate

Versi passione di verbo ammaliante
Abbracci promesse di fiato spezzato
Profumi carichi d’incensi speziati
Talamo di petali e ali tende danzanti

Estetica immagine d’eros aggraziata
Pensiero avviluppato d’atavico pasto
Offerta nuziale all’ara greve immolata
Lupa fedifraga cuore puro immacolato

Michele (30/08/2009 9.20.52)

mercoledì 26 agosto 2009

A Pamela…

A Pamela…

E m’intenerisci, amore!
Ti vedo di fattura donna
ora, e ricordo bambina,
le aggraziate movenze
dei tuoi occhi sparuti…
divine incertezze terrene.

E rese lacrime, incustodite
dalla memoria, sovvengono.
Strazi antichi d’incognito
futuro, baciano il presente,
fiore eccelso, d’inebrianti
profumi di giorni gioiosi.

Michele (26/08/2009 8.05.11)

lunedì 24 agosto 2009

Or che più non sei di beltà regina

Or che più non sei di beltà regina
E tempo curvo e stanco anni regna
Carne poggiata e cuor di sfiancate
Strade impervio cammin frustrato

Or che affanno e peso seco trascina
Pensieri freschi e vite immacolate
E anima ceder non vuole il prestato
Esilio alla notte del buio non franto

Or che spazi parabola corta vedon
E sguardo affina trascurate pieghe
Ore effimere travolgon semi sparsi
E nulla feconda terra lacrime arata

Ora roccia di sale il passo aspetta
E passione d’arse cristalline acque
Del canto il cigno ascoltan gelide
Voce afona l’eterna musica versa

Michele (24/08/2009 13.37.16)

domenica 23 agosto 2009

Per il genetliaco della piccola Monica

Per il genetliaco della piccola Monica

Monica, piccolo tesoro di nonno, sai oggi che giorno è?
Oggi è una ricorrenza importante per te, la tua mamma, il tuo papà e i tuoi nonni.
Tutti i nonni.
Nonno Michele, non stando lì vicino a te, ti scrive questa letterina che tu ora ti metterai davanti al computer di mamma e leggerai.
Per un momento fermati: non danzare in punta di piedi, esci dal tuo castello fatato, spogliati degli abiti della principessa, e leggi attentamente quello che nonno ti scrive.
Oggi, nonno ti regalerà per il tuo compleanno una Favola.
Favola che tu conserverai e nel tempo ogni tanto leggerai.
Sai, piccola, quella che nonno ora ti racconterà non è una favola del Mondo di Fantasia, ma una favola del Mondo della Realtà.
C’era una volta – iniziano così, nonno, tutte le più belle favole – una famiglia composta da padre, madre e cinque figli, sette anni dopo ne nascerà un altro che si chiamerà Giovanni, ma questa è altra storia.
Il padre si chiamava Leonardo (come lo zio), la mamma Maria (come il primo nome della tua mammina), i figli: Carolina, Michele, Anna, Raffaele, Matteo.
Il papà, a differenza del tuo, era un po’ avanti negli anni, mentre la mamma era giovane e bella come la tua mammina.
(E se tu chiedi alla tua mamma di farti vedere una foto, vedrai che somiglia alla tua in maniera impressionante.)
Il figlio Michele, che tutti chiamavano Michelino, aveva da qualche mese compiuto i sette anni, tanti quanti ne compi oggi tu.
Vedi che coincidenza!
Michelino era un ragazzone alto e forte come lo sei tu, e, come a te tutti danno più di dieci anni, anche a Michelino ne davano tanti.
Un giorno di maggio il papà ordinò a Michelino di recarsi il pomeriggio dallo stagnino a ritirare delle giare in stagno: “Quello già ti conosce. Tu digli sono il figlio di Leonardo Cologna. Se ancora non le fa aspetta. Stasera le giare debbono stare qui!”.
Tu, Monica, devi sapere che Michelino adorava il suo papà sopra ogni cosa. Quando il papà gli posava lo sguardo addosso, Michelino volava.
Era innamorato del papà come lo sei tu del tuo.
Se poi gli ordinava qualcosa era felice, ubbidiente, puntuale.
Eccessivo nel compiacerlo.
Era orgoglioso di lui, della sua bellezza e si aspettava sempre qualche parola di gratificazione che, però, non arrivava mai.
(Sai, tesoro di nonno, i propri papà sono sempre i più forti, più belli, più tutto… Proprio come pensi tu. Sì, a volte ci fanno piangere, ma poi… si fanno perdonare.)
La sera, quando il papà rientrò col suo Belvedere (una macchina di tanti anni fa) dalla campagna, Michelino, gioioso gli si fece incontro e ancora nel portone mostrò le tre giare: due grosse e una più piccola.
“Riempi questa più piccola di acqua e portala sopra!”, disse il papà a Michelino che subito, felice, eseguì.
“È pesante?”, chiese.
In verità un po’ lo era, ma Michelino disse al papà di no, che ce la faceva.
Allora il papà, rivolto alla mamma, disse: “Domani, il ragazzo viene in campagna a portare l’acqua agli ‘irroratori’!”.
(Devi sapere, Monica, che ora c’è la macchina irroratrice che sparge sostanze anticrittogamiche, prima questa operazione, non essendoci alcuna macchina, lo facevano gli uomini con la pompa a spalla.
Lavoro molto duro per loro, ma anche per i bambini che dovevano portare l’acqua con le sostanze antiparassitarie.
I bimbi con la giara sulla spalla seguivano il proprio “irroratore” e quando a questo terminava l’acqua, gliela riboccavano.
Poi correvano al pozzo dove stavano le vasche colme di acqua preparata, riempivano di nuovo le loro giare e ancora a rincorrere il proprio “irroratore”.
Era un bel gioco, subito però ti stancavi e la fatica, anche se tenevi duro, ti faceva lacrimare gli occhi.)
Il volto della mamma di Michelino s’irrigidì, e... “Ma la scuola?”.
“Sette giorni, li recupera, nessun problema!”, rispose il papà.
(Un’altra parentesi, Monica. Michelino era anticipatario a scuola e pur avendo appena finito i sette anni frequentava già la seconda elementare, quella che tu inizierai ora a settembre. Però, nonno ti confida un segreto, non dirlo a nessuno ti prego: non era bravo come te. Per niente!)
Michelino si dispiacque della mamma, ma l’idea d’andare in campagna e fare cosa gradita al papà, superò ogni dolore e gioì al pensiero del giorno dopo.
La notte per l’ansia dormì poco e quando il papà si alzò, Michelino era già pronto.
Il divertimento iniziale a mano a mano si trasformò in dolore, ma Michelino tenne duro e mai fece, neanche per un attimo, mancare l’acqua al proprio uomo.
Immaginava i complimenti del papà e ne godeva.
Quei complimenti non arrivarono mai, neanche quando la mamma chiese al padre se Michelino era bravo e s’era comportato bene.
“Sì, assai!”, fu la lapidaria risposta del padre.
Il volto di Michelino s’irrigidì come quello della mamma, ma non pianse. Era già un piccolo uomo.
Era un piccolo uomo, come oggi sei tu una piccola donna, Monica.
Sì, bella di nonno!
Oggi compi sette anni… e sai quanti anni sono sette!
A contarli fai subito, ma se ci pensi sono tanti.
Tanti, mia Principessa, quanti gli anni di ansia e di bene urlati in silenzio dal nonno per te.
Molti, quanti i tuoi giorni e la cura della tua mamma e del tuo papà per te.
Ora sei una signorinella sognante che danza, balla, parla ai delfini e suona il flauto.
Quante cose sai fare, nonno!
Il nonno tuo, invece, alla tua età non sapeva fare niente di tutto ciò.
Sapeva, però, non piangere e sognare.
Sognava quasi come te, bella di nonno!
Auguri tanti tanti dal tuo nonno.
Oggi è un giorno di sorriso per te e tutti quelli che ti vogliono bene.
Auguri per infiniti giorni felici a te e loro.
Il tuo nonno, Michele.

(23/08/2009 12.45.05)

sabato 15 agosto 2009

L’incontro… sogno mancato

L’incontro… sogno mancato


Corpi sinuosi d’acerba bellezza
Occhi straripanti curiosa beltà
Visi pudichi di rossori velati
Pensieri lampi di gioie ignote

Mani unite desideri sconosciuti
Passi incerti di luoghi infrequenti
Baci goffi di movenze rubate
Sospiri intimi di sorrisi ansiosi

Rifugio precario talamo insolito
Erbe morbide urticanti e di spine
Vesti panico e impacciate paure
Sguardi bassi di note vergogne

Timidi tocchi e pelle irti cristalli
Labbra di fonte disseccata i baci
Sguardi sfuggono gli occhi persi
Ansie popolano morte zone vive

Sincronici gesti muovono l’aria
Passi felpati fendono l’angoscia
Ignote parole non svelano arcano
Trovate le luci perso il cammino

Michele (san severo 15/08/2009 21.10.23)

Appendice

Nell’agosto del 1999 o 2000, Michele, in una tarda mattinata, portava a spasso la sua inquietudine, percorrendo Via Checchia Rispoli – lungo viale sanseverese -, per servizi o altro, non ricorda.
Trascinava lenti i suoi passi perso nel dolore di nulla che mai l’abbandona.
Gli occhi si fermano, una donna d’eleganza casual vestita mostrava di spalle un corpo aggraziato.
Gli sembrava conosciuto.
Studiò come per caso passarle davanti…
Il pensiero e i passi simultanei, gli occhi s’incontrarono: “Giuseppina!”, esclamò.
Gli stessi occhi ricci di sorriso luminoso su un volto d’anni ancor più bello.
“Michele!”
La luce del sorriso vinse… perle s’affacciarono.
Allungò la mano, prese quella di Michele, “andiamo!”.
Alle spalle una boutique d’abbigliamento li ospitò.
“Posso abbracciarti, Giuseppina!”
“Dai cretino, è una vita che aspetto!”
Ora lacrime scendevano bagnandogli l’arida barba.
“Perché, Michele? Perché!”
Non rispose Michele ma il ragazzo sedicenne.
“Eri infinita, Giuseppina! Ho avuto paura… Il tuo fiore immenso… La mano si perdeva… Sarei morto trascinato…”
Le perle, ora lacrime.
“Michele, se l’avessi saputo! Ti ho sentito irrigidire e ho creduto non ti piacessi. Il mio alito… il mio profumo… è una vita che me lo chiedo!”
Di lacrime e di baci abbracciati, ora ridevano.
“Cosa fai a San Severo, Giuseppina?”
“Subito dopo quell’estate, Michele, son tornata da Torino. Volevo starti vicino. Ho completato gli studi a san Severo. Sono stata a casa di mia zia.”
“Non ti ho mai vista, incontrata, Giuseppina!”
“È colpa mia, non ho mai avuto il coraggio di avvicinarti!”
“Sì, Michele! Ora che ci siamo ritrovati… non ci lasceremo più. Vero? Questa boutique è mia…”
“Certo, Giuseppina! Certo…”
Michele e Giuseppina non si sono incontrati mai più.
Avevano mancato il sogno… non potevano ingannare il destino.

(16/08/2009 10.17.32)

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giovedì 13 agosto 2009

E provate a indovinà!

E provate a indovinà!

Sempre lì se ne sta, buona buona,
e… che bontà!
In giro si porterà or di qua or di là,
ma sempre in sede sta.
Problemi per sé non ne dà, se non
intervengono novità.
Quasi sempre con comodità se ne
sta sul sofà.

Voi dite che sarà?
E provate a indovinà!

Di regale niente ha, ma pure i re
la vanno a cercà.
In silenzio chiusa sta se nessuno
la va a molestà.
Delle cure certo gliele devi fa, se
vuoi che conservi la bontà.
Trascurata non reclamerà, ma che
errore per carità.

Voi dite che sarà?
E provate a indovinà!

Portamenti cambierà, mutamenti pure
subirà, ma la bontà non perderà.
Se toccata, sempre, anche per piacere si
adonterà, e le spire gonfierà.
Degli uomini nel tempo la sua bontà: ieri,
oggi e domani sempre si parlerà.
Dei poeti, la musa ispiratrice, da Saffo a
Catullo, Dante e altri, in eterno canterà.

Voi dite che sarà?
E provate a indovinà!

Michele (pe’ scherzà, oggi 13/08/2009 9.22.39)

mercoledì 12 agosto 2009

LUCE/AMORE

Oh Luce, ad Amor disvelasti Occhi!
Or feriti, per dì due del cigno il canto
Ballato e danzato, taccion di crudel
Passion travolti. Amore, che del buio
È signore, per divina invidia, precipita
Con lusinghe di Armonia ammantate,
Nel regno delle Ombre sue creature.

Tu, che nel regno di Dite or tramortita
Giaci, di Didone le orme segui e parla!
Parla al tuo Enea del cor l’inquietudine!
Rammenta lui sol per amor occhi desti.
Colpe quali? Luce sincera! Amor vero.
Dite di pietà il cor coperto, il travagliato
Cammin ti mostrerà e dell’homo povertà.

Michele (san severo 12/08/2009 9.22.46)

domenica 9 agosto 2009

ANIMA MIA

ANIMA MIA

Ieri, dì, morte precoce, geloso ha oscurato Luce.
Stamattina torna a splendere e Amore s’inebria.
Si riempie di te, oh figlia di Zeus e Mnemosine!
Del tuo canto poesia, melodia cresce Desiderio.

Bagliore, mia anima in Venere spuma levatrice
Affonda. Armonia danza giardini, fiori feconda.
Ninfa velasi e Morfeo copula di leggiadra grazia.
Occhi di braccia il fuoco avvolgono, mani la morsa.

Michele (09/08/2009 9.20.37)

venerdì 7 agosto 2009

La vita è donna…

La vita è donna…
La natura è donna…
L’acqua è donna…
La morte è donna…
La bellezza è donna…
La misericordia è donna…
La solidarietà è donna…
Potrei continuare all’infinito e tutte la cose belle, necessarie, essenziali… sono al femminile.
La Terra è femmina!
Tutto ciò che produce, crea, serve… è femmina.
La mamma è femmina e donna.
Tutti dovremmo dalla donna, dalla femmina apprendere, e adorarla nella completezza.
Anche la malattia è femmina.
La compostezza è femmina, donna.
Avete mai visto un uomo cadere nella malattia (donna) e conservare la compostezza (donna)?
Per la mia esperienza e di anni e di vita, tanti: un mezzo caso, e il poverino aveva movenze femminili.
Provate a trovare una donna presa dalla malattia che abbia smarrito la compostezza, la bellezza, la commozione per sé e gli altri.
A mia memoria nessuna!
E ne ho viste e piante!
Un uomo si ammala di tumore, giace nel letto.
Sono gli ultimi giorni della sua vita e li vive fastidioso.
Imprecando.
Bestemmiando.
Una mattina è più tranquillo: sembra quasi che finalmente accetti la condizione.
Chiama la moglie al capezzale, donna giovane come lui e molto bella: “...., io sto per andarmene, ti lascio, amore mio. Me ne dispiace, sei tanto bella! Vieni, dammi un bacio! No, sulle labbra amore! L’ultimo”.
Un urlo disumano lacera il silenzio.
Urla a seguire.
Vivendo la coppia ad un piano terra, alcuni vicini entrano per capire aiutare, soccorrere.
Scena raccapricciante: l’uomo è attaccato coi denti al naso della bella moglie!
Gliel’ha quasi staccato.
I più coraggiosi riescono a strappargli con molta fatica la poverina ormai priva di sensi.
Aveva consumato la sua vendetta: se ne andava, sì! Ma la bellezza della moglie che restava, sarebbe stata deturpata per sempre.
(È un fatto vero accaduto un po’ di anni fa a San Severo.)
Caso limite?
Sì!
Ma sta ad indicare a significare. A marcare la differenza.
Trovate una sola donna catturata dalla malattia che non affini già la bella sensibilità!
Che non spalmi, ancor più di quanto abbia fatto da sana, la sua bellezza, amorevolezza, comprensione sugli altri.
È lei a darti conforto a te che per lei soffri.
È lei a farti comprendere l’amore illimitato di una mamma. Di una donna.
Infinito, come infinito è essere femmina. Donna.
Quante donne care della mia vita ho visto consumare i propri giorni, gli ultimi in una compostezza senza limiti.
Un amore immenso…
Perché questo scritto che mi sta straziando l’anima stamattina?
Un’amica!
Un’amica che conosco solo attraverso pochi scritti ma della quale ho letto l’amore, i sogni, la bellezza, la compostezza, la cultura, la saggezza, la sapientia…
Un’amica che amo di un amore infinito, che amerei fino a consumarmi per darle tutto ciò che ho:
me stesso…
Un’amica che lotta con l’amore il suo male…
Che continua il suo lavoro come se la vita le sbocciasse ora tra le mani…
Una donna cielo, terra, mare…
Universo…
Femmina…
Donna…
Prendi la mia vita, amica mia!
È tua!
Ma continua a dare a tutti la tua immensa, infinita bellezza…
Donna amore…
Donna incanto…
Donna vita…

Michele (san severo 07/08/2009 10.19.56)

giovedì 6 agosto 2009

Bracci di vita con ognuno di voi mi piacerebbe parlare

Bracci di vita con ognuno di voi mi piacerebbe parlare.
Tutti mi siete presenti ma non comunicate tra di voi.
Perché vi ritenete incompatibili!?
Tutti mi appartenete.
Ognuno di voi è parte di me.
Tutti insieme mi componete.
No, non siete pezzi staccati che confliggono!
Non vi piace mettervi insieme perché ognuno di voi crede d’essere più importante dell’altro.
È pura illusione, non è importante la durata.
No, non lo è!
Un attimo può avere l’intensità di una vita intera.
Anche solo pensato…
Sì, solo pensato!
Perché tu storia di tutti i giorni pensi con i tuoi anni di comprendere e osservare dall’alto in basso il mancato amore che stamattina mi strugge di dolore vero?
Insopportabile come se dovessi attraversare un altro calvario di anni lungo e sofferenze e tante?
Se le promesse silenziose che ci siamo fatti avessero avuto attuazione, tu, storia di lunga durata, che ruolo avresti avuto?
Saresti ora tu in un angolo a rivendicare spazio?
Ed avresti diritto d’asilo come quello che oggi lei invoca e tu le neghi?
Un suo sguardo, un suo sorriso, un tocco della sua mano d’anni stanca, oggi, mi darebbe lo stesso sollievo di una vita vissuta d’intensità infinita.
Vedi come non puoi pavoneggiarti perché il caso ti ha favorito!
Il caso, sì solo il caso determina la nostra vita!
Il resto è traino.
Necessità che segue.
Se quella domenica mattina armato di coraggio, quando son partito determinato a chiedere, non avessi incontrato lo sguardo suo interrogante e la paura, la vergogna non m’avessero strozzato la voce in gola, cosa sarebbe stata la mia vita?
Quali vie avrei percorso?
Le stesse?
Può darsi!
Starei ora qui a parlare con tutti voi?
Non lo so e non lo sapete voi!
E se l’incontraste oggi cosa le direste?
Le raccontereste che?
Le lacrime di stamattina?
Gli occhi suoi che ancora mi bucano il cuore?
Il dolore del ritorno e la voglia di far precipitare la macchina giù per la scarpata?
La corsa folle alla ricerca dell’incidente per farla finita?
La disperazione perché incapace pure a morire.
Lei non mi voleva più, ne avevo la certezza.
Dopo anni senza notizie, m’arrivò la richiesta strana.
Non la comprendevo.
Non capivo.
Perché ora mi cercava per farle da testimone alle nozze che si celebravano… con…?
Perché?
Era vendetta!
Voleva restituirmi la sofferenza inflittale?
Lo capisco solo stamattina e piango.
Era amore.
Mi comunicava che m’aveva aspettato.
Aveva atteso, tanto.
Che non m’aveva potuto portare all’altare come sposo, ma che mi voleva lo stesso a lei vicino seppure solo come testimone.
Non l’ho capito per tanti anni.
Solo stamattina.
Dolore, prendimi per sempre!
Non ti sopporto.
Cuore ingrato cessa il tuo pulsare!
Lei per tanti anni è morta un poco al giorno e io non l’ho capito.
Solo oggi.
Vita che non ti ripeti!
Vita che prendi strade occasionali!
Vita che ti nutri di dolori sprecati!
Vita che ti alimenti di lacrime non lacrimate!
Oh vita, perché così senza senso?
Perché?

Michele (san severo 06/08/2009 10.03.04)

martedì 4 agosto 2009

Pianto di cose mai possedute e per sempre perdute

Pianto di cose mai possedute e per sempre perdute

Corse di riso gioiose
Strade di passi leggeri
Ciottoli di voli incantati
Fiumana di paure lontane

Gelso possente stagliava
Tre fanciulli i rami le mani
Visi di nero macchiati
Sguardi e grande risate

L’orto d’opera grande
Lo zio gioioso guardava
Nipote e figlia garruli
Portulaca grande abbuffata

La mamma indugiava seria
Sospetto nel cuore gli occhi
Ma felicità corre ragazza
E viso e mani allontana

La sera di giochi spossata
Il riposo la cena porgeva
Il tavolo da gran ruffiano
Lo sguardo celava la mano

Cosce sode e possenti
Dita bloccate sull’orlo
Quando timorosa si traeva
Spazio concedeva sapiente

Tumulto passione bambina
Sogno di sposa vagheggiato
Paura di pianti rimossa
Di durata eterna l’estate

Lacrime presto avanzarono
Promesse silenti aggiunsero
Mai cuori così straziati
Presto si sarebbero abbracciati

Ora di anni e d’oblio l’offesa
Il cuore ritorna al fanciullo
E l’amore recupera presente
Lacrime e gran struggimento

Michele (san severo 04/08/2009 9.51.20)

martedì 28 luglio 2009

Abisso...

Abisso vagina eccitata di desiderio infinito.
Mai penetrazione raggiunge il tuo fondo.
Colpi furibondi non lambiscono il contatto.
Orgasmo d’impotenza avvilimento prebenda.

Mistero occhi assassini di vergine prodiga.
Meretrice di percorsi d’assaggio proibito.
Amante frugale d’attempati sussulti negati.
Prostituta di confine tra la vita e la morte.

Esistenza eiaculazione precoce di coito mancato.
Puttana di suburra pasteggiamento d’aborti negati.
Blennorragia d’uretrite purulenta e vulvovaginite.
Grumo terrificante sangue lacrime sperma rappreso.

Morte donna fulgente d’inquietudini consumate.
Dea polluzione notturna di promesse acquietanti.
Mantide aborrita per accoppiamento mai narrato.
Sposa fatale bella ultima femmina da consumare.

Michele (san severo 28/07/2009 20.47.22)

mercoledì 15 luglio 2009

Universo… tace

Universo… tace.
Tendetevi, o sensi, all’ascolto!

Visus, la pupilla stringi…
Scorgi, scova… stana.

Udito, affina tu l’orecchio…
Di morte interruzione afferri.

Gusto, le papille desta e lingua
Feromone a l’aeree apprenda…

Tatto, cieco per sofferente assenza…
Annaspa il vuoto… mani lunghe.

Odorato, dell’olfatto mostra il fiuto
E cattura l’odore d’antico traccia.

Epitelio, di recettori addrizza sensi
Altri… e… aggrappati allo spasimo.

Cosmo, tu che or di nessun gemito…
Ascolto, dì ché Lupa più non latra?

Venere in Dordogna, Terra e mare,
Or solida roccia tu infeconda, chi?

Lupa, pasto orfico di Notte ali nere…
Tu d’ululi priva, Eros monterà, chi?

Sguardo dell’umano or indossasti?
Occhi pastori di domestici greggi?

Torna, Venere Lupa, vieni a fecondar
Di lai, odor, amor: Sole Aria Terra Mare!

Michele (san severo, 15/07/2009 11.55.19)

lunedì 13 luglio 2009

Signor Presidente della Repubblica

Signor Presidente della Repubblica,
ho provato più volte ad inviarle un qualche scritto, ma il sito della presidenza preposto al ricevimento della posta non me lo fa fare.
Se questo capita a tutti o solo a me, non so.
Non è importante.
Questo, cercherò ancora d’inviarglielo, lo scrivo però già con l’intendo di pubblicarlo su facebook e inviarlo a tutte le testate che mi sarà possibile.
Lavoro inutile anche questo, ma, come si dice: la speranza, ultima a morire.
A volte, il più delle volte fa fare cose prive di senso.
Se le capiterà di leggere questa, tragga lei il giudizio.
Nella primavera del lontano 1980 – se non vado errato – lei, esponente autorevole dell’allora PCI, venne nella mia città a tenere un comizio sull’aborto o sul divorzio (non ricordo bene e non vado a ricercare perché non è importante ai fini del discorso che voglio farle) a seguito di un tentativo d’attacco alla legge da parte delle forze politiche più conservatrici se non reazionarie.
Si diceva così una volta, signor Presidente.
Giovane esponente dirigente di quel partito, fui incaricato a riceverla presso il Comitato Cittadino per accompagnarla al comizio.
Chissà, fui scelto solo per la disponibilità e non per altro!
L’orario insolito per un comizio le ore 11, ma quella era la sua disponibilità, la portò a San Severo una mezz’ora prima e in sede ci trattenemmo a parlare un po’.
Davanti al dirigente della componente alla quale mi sentivo legato per affetto nei confronti di Giorgio Amendola e per la sua riconosciuta intelligenza e signorilità, nonché per la mia propensione all’idea riformista, ero in notevole soggezione.
Lei mi fece alcune domande su come stava procedendo la campagna referendaria, sulla percezione dei compagni e dei cittadini, sul partito.
Le risposi in maniera attenta e stavo aggiornandola, quando - sedutosi alla scrivania del segretario - posò gli occhi su una copia del giornale ciclostilato che il comitato cittadino redigeva “Il Progresso” e, ignorandomi quasi, si mise a scorrerlo.
Restai un po’ contrariato e al mio disagio s’aggiunse un po’ di vergogna per il miserevole, penoso ciclostilato, visto che ero direttamente coinvolto nella stesura e facitura dello stesso.
Si mise ad annuire e si complimentò con me. Poi mi chiese chi fosse l’autore di uno scritto.
A quel punto l’imbarazzo salì alle stelle, e l’avrei senz’altro mentito per la vergogna, se non fosse sopraggiunto un compagno che ben sapeva chi l’aveva scritto.
L’avevo scritto io, signor Presidente. E glielo riferii con tanto dolore perché sapevo della pochezza, della stupidità dello stesso.
Lei mi lodò ed io sarei sprofondato.
Lo sapeva pure lei che quello scritto e quel giornaletto erano lesivi dell’intelligenza.
Mi offesi molto, signor Presidente.
Ma in quel periodo nel partito o si parlava così o niente.
Il compagno arrivato precorreva un po’ i tempi. Anticipava quello che sarebbe diventato il partito di lì a poco.
Era molto intelligente, preparato ma assai poco serio: gigioneggiava. Sempre.
Così con la disinvoltura dell’improvvido le chiese: “Compagno Napolitano, abbiamo attraversato il Guado?”.
Lei, lo fulminò con lo sguardo e rispose: “Tu pensa a fare la campagna referendaria e a lavorare. Al Guado ci penso io”.
Fui orgoglioso di quella sua risposta.
Avevo dimenticato l’offesa del complimento.
Aveva con tono e garbo affermato la differenza dei ruoli.
E in tutte le civiltà il rispetto del ruolo è conditio sine qua non.
Non è possibile nessuna civiltà, nessuna struttura organizzata se i ruoli non son ben distinti e rispettati.
Per la memoria tenne il comizio in Piazza della Repubblica ed andò via.
Perché questo scritto, Presidente!?
Lei, signor Presidente, più volte sta prendendo la parola e, me ne dispiace dirglielo, fuori dal suo ruolo.
La Presidenza della Repubblica deve parlare solo con gli atti.
L’unico suo ruolo è quello di Vigile Garante della Carta Costituzionale.
Niente altro.
Lei non può e non deve suggerire, mentre una legge è in discussione in Parlamento, il suo pensiero.
Questo ruolo non gli è assegnato!
E non voglio starle a spiegare il perché.
Lo sa meglio di me!
Se la legge approvata dal Parlamento non passa il suo controllo, dev’essere respinta alle Camere e solo in quel momento lei può motivare.
La Presidenza della Repubblica non legifera e i suoi pareri personali delegittimano la funzione.
Sono solo dei pleonasmi politici di cui i cittadini italiani sia coloro che avversano questo governo, sia coloro che l’appoggiano non ne sentono la necessità.
Non può invitare quotidiani e persone a contenere la polemica o l’agone politico.
Non gli compete!
Mi fermo, signor Presidente, perché ho troppo rispetto per la carica.
Parlo alla persona.
Lei è una persona molto indecisa, Giorgio Napolitano!
Tutte le persone intelligenti lo sono.
Il dubbio che è ancella dell’intelligenza paralizza.
Ma la persona dubbiosa non deve ricoprire cariche decisive. Importanti.
Mi reputo discretamente intelligente e per rispettarla non ho mai voluto assumere ruoli o cariche dove bisogna eseguire con decisione.
Non ne sono capace.
Al ruolo di genitore non potevo abdicare ed è il solo che mi sono riservato.
Ora le dico, lei non decise nel ’56 sbagliando, non attraversò quel Guado che forse avrebbe cambiato la storia dell’Italia e certamente della sinistra...
Credo che per queste cose e altre sue, si porterà forte rimorso e rimpianti.
Con commozione ho vissuto il suo riconoscimento postumo al rimpianto Giolitti.
Tenga fede solo alla sua carica.
Lasci a noi senza alcuna responsabilità o carica istituzionale la libertà della valutazione.
Tutti avremo a guadagnarne.
Con deferenza alla Carica, con commozione all’uomo.

Michele Cologna (san severo, 13/07/2009 10.31.03)

giovedì 9 luglio 2009

All' amico Roberto: "perchè sono nato"

Roberto,
sono uomo antico.
A volte mi sorprendo di vivere e forse comprendere una realtà che non sento mia.
Sono della generazione e non mi riferisco all’anagrafe, che dava un nome, un’anima agli animali, alle piante, alle cose.
Il mio mondo è affollato di anime d’uomini, d’animali e oggetti.
Ancora oggi non so il perché dichiarato, quello intuito sì, mio padre una mattina mi svegliò: “Ragazzo, vestiti! Da oggi la tua scuola è la campagna. Tu, Maria, preparagli la roba. Tuo figlio non tornerà. Resta in campagna!”.
Avevo dieci anni e pochi mesi.
Essendo anticipatario, a scuola frequentavo la prima media.
Un fringuello impaurito.
Occhi spalancati sul nulla.
Destino?
Nessuno!
Figlio.
In campagna: “Pasquale, da oggi questo è il ragazzo della stalla delle vacche. Il ragazzo dov’è?”.
“Padrone Leonardo, sta con le vacche al pascolo”.
“Quando torna, preparasse la roba. Se ne va al paese, a Volturino. La mesata gli verrà pagata e che stia a casa a disposizione mia. Quando avrò di bisogno, andrò a prenderlo!”
Pochi passi, “Vedi dove sistemarlo! Nessun riguardo. Ne rispondi tu!”.
Brillavano gli occhi di Pasquale, detto “u piccialum”.
Compresi durante: di cattiveria.
Gli era capitata la fortuna della sua vita: poteva lavare tutte le umiliazioni, umiliando il figlio del padrone.
Trovò un angolo dello stallone più sgombro, “Ecco, riempiti questo sacco di paglia. Questo è il tuo giaciglio”.
Sapete cos’è una stalla?
Mattina sveglia alle tre.
Gli occhi che ancor non si schiudono e tirare il letame da sotto le vacche, ammucchiarlo, portarlo fuori con la carriola e rifare la lettiera di paglia agli animali.
Strigliatura… mungitura.
La mungitura è uno sforzo sovrumano per un bambino. Esci stremato come se per due ore ti fossi arrampicato su una pertica senza fine e… la paura di precipitare da un momento all’altro.
Esausto.
Si slegano gli animali, li si accompagnano nel recinto e lì, a braccia, si tira l’acqua dal pozzo per abbeverarli. Bevono, bevono e non si staccano mai dalla pila. La catena che trascina su e giù i secchi ti fa sanguinare le mani.
Quando hanno saziato la sete, corri a riordinare la stalla: nuova ripulitura degli escrementi freschi e rifacimento della lettiera.
Prepari un tozzo di pane, ti armi del bastone a uncino, ritorni nel recinto, ti raccogli le bestie e…, finalmente, vai al pascolo.
E… la libertà: rosa/rosae/rosae/rosam/ rosa/rosa - rosae/rosarum/rosis/rosas/rosae/rosis; 6x6 36; 12x12 144; 24x24… 576, troppo; 25x25 625, troppo facile 250+250+125; il, lo, la, i, gli, le…;
is/ea/id/eius/eius/eius/ei/ei/ei…
Ci sono, ancora.
“Diana, dai… raccoglile!”, un genio quella cagna, un boxer.
Ora potevo sedermi e mangiare quel tozzo di pane sporco e amaro.
Osservavo Rignano lì sulla pianura affacciato e vi abitavo con la mamma e organizzavo difese perché nessuno da lei via mi portasse.
Il castello di Lucera, pure chiaro e nitido, e Federico ero e a caccia mi portavo e… le lacrime scendevano.
Vis/roboris/robori/vim/vis/vi/vires/virium/viribus/vires/vires/viribus.
Di, a, da, in, con, per, su, tra, fra…
Dic, duc, fac, fer, fio, fis…
Intorno alle dieci si dovevano riportare le bestie alla stalla.
Senza orologio, avevo imparato a controllare l’ora dalla mia ombra segnandola con i passi.
Ritorno al recinto, nuovo abbeveraggio e molta più acqua del mattino.
Si preparavano le mangiatoie con razione di fieno e si ricoveravano le bestie.
Pausa pranzo.
Un lercio pancotto, preparato dal fattore con mosche… e una volta un topo.
Se la rideva, Pasquale.
Qualche ora sul letto: sacco di niente su sacco di iuta riempito di paglia…
Poi di nuovo, le stesse operazioni… senza fine.
Non si parlava.
Mai.
Le parole non servono.
Suoni gutturali che impari dagli animali e che imiti e comprendono.
Niente è umano solo lo sguardo il tuo come quello delle bestie e il silenzio.
Avevo imparato a comunicare con le mie vacche e loro m’ascoltavano.
M’amavano!
Sì, stellina, biondina, nerina, la pezzata, catarina…
Biondina, la più bella, la mia interlocutrice: giovenca bruna alpina enorme che dava il latte solo a me e al suo vitello.
Chiunque si poneva alla sua mungitura sfigurava: se non riusciva a fargli saltare il secchio dalle ginocchia, “ritirava” il latte, gliene dava poco.
Fu la mia prova d’esame.
Avevo appena iniziato la mungitura, pochi litri nel secchio, una zampata, un’onda di latte in faccia, una scudisciata nelle spalle.
Un tutt’uno.
Non si piange al dolore, quando non hai destino.
Ho ripreso la mungitura e ora lei con la testa girata mi guardava: anche quello versato mi ha ridato e il mio pianto ha lacrimato.
Da quel momento in libertà, al pascolo, nella recinzione mi seguiva come si segue un bambino e mi proteggeva.
M’aveva adottato, leccava me come il suo vitello.
Lo sguardo dolce dell’amore lei m’ha insegnato e lei e le altre…, ancora oggi sono anime che in qualche posto del mondo, lì dove si aggruma ogni dolore, aspettano.
Roberto, scusami la lunga digressione.
Alla domanda “perché sono nato” tu mi hai chiesto di rispondere.
Poiché io credo di conoscerti bene: l’intelligenza e l’ironia; la furba ingenuità; l’utile onestà; la beffarda umiltà; la grande sincerità…
Ti ho risposto seriamente: “perché dovevo incontrare il tuo sorriso, poi ti invierò le motivazioni ridicole”.
Ecco le motivazioni ridicole.
Se io appartengo a quel mondo dell’anima delle cose, Roberto, potevo far inserire la motivazione della mia nascita in una statistica?
Roberto, tutti, tutti noi siamo nati da un grugnito emesso.
Cos’è che in seguito fa la differenza?
La differenza sta nella risposta che ognuno di noi si da alla tua domanda.
Io non so se sono nato per desiderio, per caso, per violenza, per amore…
Non lo so!
So perché vivo, però!
Vivo e sono nato per piacere agli altri così come sono.
Non per piacere agli altri come altri mi vogliono.
E per piacere agli altri così come sono, non ricorro all’imposizione, alla forza e sistemi simili, ma all’amore.
Solo all’amore.
Lo pratico e lo elargisco a piene mani.
Non mi risparmio mai.
Voglio bene alla vita e soffro tutte le sofferenze per amore.
Le vivo con amore e allevio le pene mie e di coloro che posso con amore.
Sono nato per amare e piacere amando.
Con tanto affetto.

Michele (san severo giovedì 9 luglio 2009 ore 21.40.29)

mercoledì 8 luglio 2009

Parole brevi le consegnai

Parole brevi le consegnai
Luna rossa raccogli e vai
Nessun per strada lascerai
Tutte a lei preziose assai

Amore amore amore
Delizia del mio cuore
Occhi di tanto ardore
Fuoco del mio dolore

M’ammalo del distacco
Mai tregua nel bivacco
Digiuno senza smacco
Sfrondo l’inult'almanacco

Sollievo non rintraccio
Pur sapendo de l’intralcio
Ragione solo impaccio
Rabbia morde il braccio

Sussurrale con accortezza
La soma d’amor scavezza
Anelante di martir certezza
Soffocar sol a la tua trezza

Michele (san severo 08/07/2009 12.00.38)