lunedì 13 luglio 2009

Signor Presidente della Repubblica

Signor Presidente della Repubblica,
ho provato più volte ad inviarle un qualche scritto, ma il sito della presidenza preposto al ricevimento della posta non me lo fa fare.
Se questo capita a tutti o solo a me, non so.
Non è importante.
Questo, cercherò ancora d’inviarglielo, lo scrivo però già con l’intendo di pubblicarlo su facebook e inviarlo a tutte le testate che mi sarà possibile.
Lavoro inutile anche questo, ma, come si dice: la speranza, ultima a morire.
A volte, il più delle volte fa fare cose prive di senso.
Se le capiterà di leggere questa, tragga lei il giudizio.
Nella primavera del lontano 1980 – se non vado errato – lei, esponente autorevole dell’allora PCI, venne nella mia città a tenere un comizio sull’aborto o sul divorzio (non ricordo bene e non vado a ricercare perché non è importante ai fini del discorso che voglio farle) a seguito di un tentativo d’attacco alla legge da parte delle forze politiche più conservatrici se non reazionarie.
Si diceva così una volta, signor Presidente.
Giovane esponente dirigente di quel partito, fui incaricato a riceverla presso il Comitato Cittadino per accompagnarla al comizio.
Chissà, fui scelto solo per la disponibilità e non per altro!
L’orario insolito per un comizio le ore 11, ma quella era la sua disponibilità, la portò a San Severo una mezz’ora prima e in sede ci trattenemmo a parlare un po’.
Davanti al dirigente della componente alla quale mi sentivo legato per affetto nei confronti di Giorgio Amendola e per la sua riconosciuta intelligenza e signorilità, nonché per la mia propensione all’idea riformista, ero in notevole soggezione.
Lei mi fece alcune domande su come stava procedendo la campagna referendaria, sulla percezione dei compagni e dei cittadini, sul partito.
Le risposi in maniera attenta e stavo aggiornandola, quando - sedutosi alla scrivania del segretario - posò gli occhi su una copia del giornale ciclostilato che il comitato cittadino redigeva “Il Progresso” e, ignorandomi quasi, si mise a scorrerlo.
Restai un po’ contrariato e al mio disagio s’aggiunse un po’ di vergogna per il miserevole, penoso ciclostilato, visto che ero direttamente coinvolto nella stesura e facitura dello stesso.
Si mise ad annuire e si complimentò con me. Poi mi chiese chi fosse l’autore di uno scritto.
A quel punto l’imbarazzo salì alle stelle, e l’avrei senz’altro mentito per la vergogna, se non fosse sopraggiunto un compagno che ben sapeva chi l’aveva scritto.
L’avevo scritto io, signor Presidente. E glielo riferii con tanto dolore perché sapevo della pochezza, della stupidità dello stesso.
Lei mi lodò ed io sarei sprofondato.
Lo sapeva pure lei che quello scritto e quel giornaletto erano lesivi dell’intelligenza.
Mi offesi molto, signor Presidente.
Ma in quel periodo nel partito o si parlava così o niente.
Il compagno arrivato precorreva un po’ i tempi. Anticipava quello che sarebbe diventato il partito di lì a poco.
Era molto intelligente, preparato ma assai poco serio: gigioneggiava. Sempre.
Così con la disinvoltura dell’improvvido le chiese: “Compagno Napolitano, abbiamo attraversato il Guado?”.
Lei, lo fulminò con lo sguardo e rispose: “Tu pensa a fare la campagna referendaria e a lavorare. Al Guado ci penso io”.
Fui orgoglioso di quella sua risposta.
Avevo dimenticato l’offesa del complimento.
Aveva con tono e garbo affermato la differenza dei ruoli.
E in tutte le civiltà il rispetto del ruolo è conditio sine qua non.
Non è possibile nessuna civiltà, nessuna struttura organizzata se i ruoli non son ben distinti e rispettati.
Per la memoria tenne il comizio in Piazza della Repubblica ed andò via.
Perché questo scritto, Presidente!?
Lei, signor Presidente, più volte sta prendendo la parola e, me ne dispiace dirglielo, fuori dal suo ruolo.
La Presidenza della Repubblica deve parlare solo con gli atti.
L’unico suo ruolo è quello di Vigile Garante della Carta Costituzionale.
Niente altro.
Lei non può e non deve suggerire, mentre una legge è in discussione in Parlamento, il suo pensiero.
Questo ruolo non gli è assegnato!
E non voglio starle a spiegare il perché.
Lo sa meglio di me!
Se la legge approvata dal Parlamento non passa il suo controllo, dev’essere respinta alle Camere e solo in quel momento lei può motivare.
La Presidenza della Repubblica non legifera e i suoi pareri personali delegittimano la funzione.
Sono solo dei pleonasmi politici di cui i cittadini italiani sia coloro che avversano questo governo, sia coloro che l’appoggiano non ne sentono la necessità.
Non può invitare quotidiani e persone a contenere la polemica o l’agone politico.
Non gli compete!
Mi fermo, signor Presidente, perché ho troppo rispetto per la carica.
Parlo alla persona.
Lei è una persona molto indecisa, Giorgio Napolitano!
Tutte le persone intelligenti lo sono.
Il dubbio che è ancella dell’intelligenza paralizza.
Ma la persona dubbiosa non deve ricoprire cariche decisive. Importanti.
Mi reputo discretamente intelligente e per rispettarla non ho mai voluto assumere ruoli o cariche dove bisogna eseguire con decisione.
Non ne sono capace.
Al ruolo di genitore non potevo abdicare ed è il solo che mi sono riservato.
Ora le dico, lei non decise nel ’56 sbagliando, non attraversò quel Guado che forse avrebbe cambiato la storia dell’Italia e certamente della sinistra...
Credo che per queste cose e altre sue, si porterà forte rimorso e rimpianti.
Con commozione ho vissuto il suo riconoscimento postumo al rimpianto Giolitti.
Tenga fede solo alla sua carica.
Lasci a noi senza alcuna responsabilità o carica istituzionale la libertà della valutazione.
Tutti avremo a guadagnarne.
Con deferenza alla Carica, con commozione all’uomo.

Michele Cologna (san severo, 13/07/2009 10.31.03)

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