venerdì 17 aprile 2009

Favola delle cose perdute

Favola dedicata ai miei figli Stefania, Leonardo, Barbara e Pamela.
Ai nipotini Monica e Riccardo.
A John, Italo, Stefano, Brilanda.
All’amico di sempre Gino.
Al nuovo e gradito amico, Piero.
A Rosa, Roberto, Maria Pia, Stefania…
A Tutti, tutti gli amici di facebook.

C’era una volta un bambino innamorato assai del suo papà.
Era bello il padre!
Un colorito sempre roseo.
Profumava senza profumo.
Vestiva alla cacciatora dei velluti che erano teneri, morbidi come le sue mani.
Era alto, possente.
La sua voce sicura non contemplava mai repliche.
Il suo sguardo zittiva tutti.
Tutti nel salutarlo si alzavano, toccavano il berretto ed egli sempre giulivo rispondeva con simile cortesia.
Le signore le onorava portandosi il cappello al petto con un leggero inchino.
Quando Michelino, questo era il nome del bambino, gli stava vicino, pure lui in gran forma vestito, era felice.
Se il papà gli sfiorava appena il collo con la sua tenera e possente mano, egli diventava altissimo.
Toccava il cielo.
Non camminava più, volava.
Un pomeriggio del luglio 1953, dopo il riposo pomeridiano, il papà chiese a Michelino se voleva andare con lui in campagna a “Florio”.
Avrebbe gridato di gioia, ma non si poteva e molto misurato, “sì, papà”. Ma la voce non gli uscì e Michelino rispose annuendo solo sì con la testa come fanno gli asini.
Tirò fuori dal portone la Giardinetta fiammante, fece salire Michelino e si avviarono.
Durante la strada: “Questo fondo è distante dalla masseria è troppo scomodo… Gli animali non riposano bene nella stalla… Gli operai fanno il comodo loro… Il fattore non può controllarli…”.
Cose di questo genere che Michelino ascoltava con gli occhi sbarrati per la concentrazione, ma che lo stesso non capiva.
Arrivati scesero:
l’odore inebriante delle viti miscelato a quello dello zolfo e del verderame…
il profumo della terra appena girata dall’aratro che asciugava ai calanti e ancora tiepidi raggi del sole…
l’odore abbagliante della calce viva appena data ai muri del caseggiato…
il verde rilassante della vigna e il verde argenteo degli olivi fermi in filari che si toccavano al limite…
il sole, palla rossa, che si apprestava a ritirarsi dietro i monti del subappennino dauno…
l’odore acre del sudore dei cavalli che arrivavano ansimanti…
Era il paradiso.
Michelino, da grande Michele, sempre così immaginerà il paradiso perduto.
Lì per sempre lascerà la sua scordata felicità.
“Neh, ragazzi, dove state andando!?”
Uno, “Padrone Leonardo, alla stalla. Prima che fa buio governiamo le bestie e…”.
“Perché è calato il sole?”
“No, ma…”
“Andate a rimettere sotto le bestie!”
Non arrivarono agli aratri, era già calato il sole.
Lacrimavano gli occhi dell’uomo che aveva parlato.
“Possiamo potare gli animali alla stalla?”
Le parole immobili restarono nell’aria.
Nessuna risposta.
Affianco del papà Michelino non visto piangeva anche lui.
Aveva desiderato che quell’uomo picchiasse il papà.
Ora gli faceva male, gli doleva quel desiderio, quel pensiero come una scudisciata.
Una ferita che non si rimarginerà mai più.
Triste, Michelino, al ritorno non alzò lo sguardo verso il padre che amava ora più di prima.
La notte, vincendo la solita paura, impiegò molto tempo per addormentarsi.
Era fermo sull’uscio del casolare dove stavano i cafoni a farsi il pancotto alla fioca luce della lucerna ad olio.
Avrebbe desiderato, voluto entrare, ma non era quella la sua casa.
La sua casa era dove stava lì sul letto con gli occhi sbarrati senza prender sonno.
Non sarebbe mai entrato nella casa dei cafoni.
Sarebbe stato sempre lì a vigilare sull’uscio.
Ma neanche casa sua gli apparteneva più completamente.
Da quella sera Michelino, poi Michele non è stato mai più in nessun posto a casa sua.
Michele Cologna
venerdì 17 aprile 2009 ore 11.16.49

1 commento:

  1. Caro Michele, nel trascrivere una delle mie tante "poesie" in uno dei miei blog, mi è venuto in mente un tuo scritto che sono tornato a cercare. Mi comosse allora e mi ha di nuovo commosso, sei tu il vero poeta quando esprimi i sentimenti come nessun'altro saprebbe fare. Ecco la poesia, anche se non è gran che.

    Le mie colline.

    Quando entrava la focosa estate
    tutte d'oro sembravan le colline,
    poche le macchie verdi, lungo i fossi,
    o lassù più lontano, sulle cime.
    Non c'era un metro incolto,
    le ricche messi abbondanti
    stavano lì, pronte per il raccolto.
    Del contadino ovunque si scorgeva
    l'opera saggia e paziente,
    ma l'arcaica miseria dominava.
    S'impastava la polvere al sudore
    e, d'inverno gli scarponi
    pieni di mota divenivan piombo;
    non esisteva asfalto sulle strade
    e la corrente elettrica mancava
    ma, più pesante ancora
    il dover dire: -Si signor padrone!-
    Sono finiti quei tempi, (e meno male)
    quella fatica nera
    allora che vicine, in larga schiera
    roteavan le falci; ora son mostri
    meccanici, potenti, tutto fare
    a rasar senza sosta il giallo mare.
    I casali avvolti dagli spini
    abbandonati, senza contadini
    cadono a pezzi....una desolazione.
    Nessuno più che dica: Sì padrone!

    Domenico 26-05-2007

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