sabato 6 febbraio 2010

Un volto senza tempo...

Un volto senza tempo.
Peppino il Caselvecchiesse, il suo nome.
Non aveva età, non aveva nome.
Impassibile il suo aspetto, si conduceva agli ordini.
Tutti avevano da ordinargli qualcosa.
Anche Lauretta, sua moglie, donna svelta di gamba e parola.
Lei, i suoi comandamenti.
Tanto attenta, pulita e prodiga lei, quanto acefalo, pigro, passivo lui.
D’origine albanese entrambi, vivevano in un paesino del Subappennino Dauno, Casalvecchio di Puglia, a cultura e lingua albanese.
Era “a padrone” da mio padre.
Il più umile dei garzoni.
Gli altri, tutti avevano un ruolo e un compito, Peppino no.
Era al servizio di chi a ragione o torto lo chiamava.
Non era mai fermo, la sua lista non esauriva mai il compito.
Ma qualunque carico, non alterava il passo di Peppino.
Era costante nel tempo.
Non sentiva, non reagiva, ubbidendo faceva.
La sua unica libertà, forse: la pigrizia nella lentezza.
Amavo quel vecchio.
Bambino gli davo la mano e in silenzio con lui mi muovevo.
Masticava aglio da non appena metteva i piedi a terra, prima del sorger del sole, a sera quando posava il suo corpo sul giaciglio.
Non lo sentivi mai arrivare, se non dall’odore dell’aglio.
Non mi piaceva l’aglio, ma Peppino sì.
Così vincevo la nausea che mi dava, per il piacere di dargli la mano ruvida come roccia calcarea.
Ogni svista dei miei, era occasione per correre da Peppino.
Non so perché, ma la tenerezza che provavo per lui mi è rimasta come traccia indelebile.
Peppino a una determinata ora del giorno scompariva.
Nessuno lo trovava.
Poi riappariva e ogni rimprovero assorbiva imperturbabile.
Un pomeriggio molto caldo, correvo dietro una “farfalla regina”, il macaone, che io per bellezza così avevo battezzato, e nascosto dalla meta di “favarazzo” (foraggio di papiglionacee), stava Peppino.
Mi guardò e col dito mi indicò il silenzio.
Avevo un suo segreto da custodire.
Sapevo dove stava Peppino quando i suoi padroni lo cercavano.
Niente cambiò tra di noi, come potevo correvo da lui, gli davo la mano e in silenzio andavamo.
Mai dissi a qualcuno del rifugio di Peppino, mai andai a disturbarlo in quel suo appartarsi.
Solo tanto tempo dopo, da grande, ho capito che Peppino era Musulmano, e lì andava a pregare rivolto alla Mecca.
Un pomeriggio caldo, ma davvero caldo, tutti riposavano tranne io che stavo seduto su una pietra e Peppino che tornava dal suo nascondiglio.
Si sedette a terra vicino a me e in silenzio stavamo.
Ogni tanto la sua mano faceva il gesto d’allontanare le mosche e diceva delle parole a me incomprensibili.
Non aveva alcuna violenza quel gesto, sembrava più un invito.
Una preghiera.
Gli chiesi cosa diceva e lui: “Sciò, mosca, non ho la tua forza”.

***
Ieri mattina, conversando con una mia graziosa amica, di sensibilità, rispetto e cose simili, lei affermò che non avrebbe avuto mai il coraggio d’ammazzare una mosca.
Io le mosche le ammazzo e ne provo profondo schifo, fastidio, repellenza, risposi.
Oggi la memoria m’ha portato a Peppino, certo anche lui avrebbe, se avesse avuto facoltà di parola, affermato lo stesso concetto.
Avrebbe con il gesto della preghiera, invitato la mosca a lasciarlo in pace, non per essere egli a lei superiore, ma per dichiarata ammissione di debolezza.
L’uomo che s’inchina alla Natura e la rispetta.
Dedico con affetto alla memoria dell’uno e ammirazione dell’altra questo ricordo.
Due Bellezze.
Tanto diverse, ma…


Michele (san severo 06/02/2010 10.29.02)

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