lunedì 8 febbraio 2010

Quando le parole...

Quando le parole più non bastano, avendo smarrito la consuetudine, il senso normale delle cose, ricorriamo a dei rafforzativi che ce ne conservano l’antico ricordo.
L’affermazione che potrebbe sembrare apodittica, è constatazione di cambiato senso delle parole.
E poiché il linguaggio è lo specchio d’una civiltà, noi siamo a una civiltà che no più per se stessa regge, e costretti a ricorrere a supporti per rafforzarla.
Mantenerla, con puntelli che ne danno l’aspetto incontrovertibile della sua ormai instabile precarietà.
Del suo disfacimento, imminente crollo.
Potremmo addurre esempi lontani da noi e allocare le giuste responsabilità, e alcun torto faremmo ai costruttori di modelli e parole e salveremmo le nostre anime, che belle ci conserveremmo.
Operazione che, oltre a salvare la nostra anima, ci metterebbe fuori dal sentir degradato.
Invece.
Mia madre, persona di nessuna cultura e analfabeta, ma d’intelligenza viva e pungente, severa nei comportamenti e misurata in ogni sua espressione, verso la fine della sua travagliata vita, un giorno dello scorso secolo, doveva essere l’anno 1992, recandomi io da lei e sentendo lei salir le scale, mi dette voce e, “Chi è il mio tesoro?”.
Risentito, perché mai tenerezza di tal misura nel mio già lungo corso avevo ricevuto, le risposi, “No, mamma, ti sei sbagliata! Il tuo tesoro non son mai stato!”.
Mi punge ancor oggi quella risposta anima, cuore e mente e mi duole. Me la rimangerei e mille volte e ancora mille le chiederei perdono, ma or più non posso…
Non c’entra alcunché con il ragionamento che stiamo facendo, ma ho tolto solo una spina…, per proseguire.
Quella donna così misurata, di parole parsimoniosa, di concetti asciutti e essenziali, aveva sentito il bisogno di un rafforzativo per chiamare il figlio, che solo nei momenti più armoniosi aveva avuto un nome.
Io, l’appellativo più tenero nei confronti dei miei figli, il loro nome che l’accompagnavo, e ancor lo faccio, col desueto “a papà”, addolciva il ruolo e gratificava il mio cuore e forse il loro ascolto.
Oggi mi scopro molto spesso a usare i termini tesoro, dolcezza, bella, amore e tanti altri attributi e appellativi che debbono consolidare, rafforzare il sentimento di padre che forse per se stesso più non regge.
Giudizi sintetici di tanti insegnanti, bravissimo, ottimissimo (sic!), campionissimo, e campionario di questo genere.
(Ragazzi intermedi non ce ne sono più.)
O “issimi” in positivo, oppure in negativo (solo alcuni e per lo più emigrati, zingari e bisognosi).
I giudizi sintetici di scarso, sufficiente, buono e ottimo non soddisfano più ci vogliono accrescitivi che rafforzano significati persi.
La normalità del senso è desueta, banale.
Quasi offensiva.
Alcuni personaggi televisivi sobri, Federica Sciarelli che conduce “Chi l’ha visto”, provate qualche volta ad ascoltarla, trattando argomenti che prendono alla gola, lei è costretta a usare parole, giuste adeguate, e poiché queste le sembrano non raggiungere l’abbisogno, ricorre con una frequenza ossessiva al rafforzativo “veramente”.
Michele Santoro, specie in estinzione del giornalismo d’inchiesta, supportando con le immagini le sue affermazioni e piovendogli addosso l’accusa di fazioso, ha bisogno continuamente di dichiararsi uomo di spettacolo e fazioso, per far passare la realtà nascosta dietro l’esagerazione. Un rafforzativo che raggiunge la scopo per sottrazione.
Noi, popolo di Facebook.
Qui il campionario è di una varietà infinita e per alcuni aspetti patologico.
Forse, essendo tutti noi realtà virtuali, dietro l’assenza della faccia, liberiamo la de cuius hereditate senza freni inibitori.
Tutti Speciali: termine ormai misero e logoro per troppo uso, non basta più e si assurge a Divino.
Il paragone col divino è condizione necessaria per la minima gratificazione.
Senza, è offesa.
Dio si spreca in ogni dove, nelle miserie più infime per darle parvenza di dignità.
Povero Dio!
Un dio amorfo che piega la sua essenza a ogni sembianza.
L’Amore, la Luce, la Particella divina…
Uomo e donna epifanie insufficienti che trasmutano in altro non giustificato dalla visione artistica.
Barbarismi che degradano il linguaggio e con esso il sentire.
Superlativi assoluti che diventano relativi.
Sostantivi che prendono suffissi che mortificano dopo aver strizzato orecchi e cervella.
Potremmo continuare ma mi fermo, avendo addotto una qualche giustificazione all’affermazione iniziale.
La normalità è bandita dal nostro pensiero, linguaggio e quindi dalla realtà.
Certo la trasformazione essendo in atto, non l’ha ancora resa omogenea. Ma su quella strada ci muoviamo.
Se avessi preso a esempio il linguaggio della politica, dell’economia, o il legislativo, amministrativo e altro, tutti ci saremmo eretti a giudici e l’avremmo sentito lontano da noi con incontestabili, buone motivazioni storiche e attuali.
Questi esempi minuti e a noi vicini, invece, dovrebbero spingerci a riflettere. Rivederci.
Emendarci, se ci è possibile.
La parola è il segno di una civiltà come nessun’altra cosa.
La normalità è il segno della salute di un sistema.
Quando le due cose si alterano un processo trasformativo è in atto.
E seppur la cosa per se stessa non dovrebbe allarmarci, nella situazione data preoccupazioni molto forti dovrebbero scuotere il nostro torpore.
Le trasformazioni di segni, linguaggio e civiltà son positive quando partono da un’esigenza sentita di popolo. Cioè, partano dal basso. Da una condizione oggettiva della realtà.
Questa nostra attuale è indotta dalla comunicazione unica, non plurale.
Una comunicazione che viaggia per sé, staccata dalla realtà.
La realtà è omessa, se non nella finzione, nella simulazione di essa.
Questo, per estrema sintesi, significa che il sentire degli uomini non si alimenta più del vero ma della sua proiezione falsificata.
E poiché l’uomo ha costruito se stesso sulla realtà effettuale, un così radicale cambiamento, che va a sostituire l’oggetto formante, porta alla trasformazione antropologica dell’essere umano.
Non più aequatio intellectus et rei, non nomina sunt consequentia rerum, ma “Il grande fratello”.
Né Orwell, né la miserabile fiction, ma la costante, persistente e assidua “realtà” che falsifica il Nous.

Michele (san severo 08/02/2010 11.27.45)

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