giovedì 24 dicembre 2009

“Dies natalis invicti solis.”

“Dies natalis invicti solis.”

Così il calendario civile romano, che fin dal terzo secolo celebrava il solstizio invernale e il natale del sole invitto.
I cristiani vollero fare loro questa ricorrenza con la celebrazione del vero Sole, il Dio che si è fatto uomo.
Ancor prima del calendario romano, il solstizio invernale significava che insieme alla nuova vita del sole, iniziava il nuovo processo vitale.
L’inverno è la morte.
Quella morte necessaria alla nuova vita.
Morte e Vita in un unico abbraccio, la morte incubazione della nuova vita.
Non ci sarebbe gestazione senza dell’inverno.
Della Morte.
L’uomo nuovo che esorcizza la morte, dovrebbe comprendere che senza non ci sarebbe vita.
Ora il Natale la celebrazione della Natività occupata dal consumo.
Ma non è di questo che voglio parlare.
“A te che sei del mondo il creatore, manca pane e fuoco, oh mio Signore.”
Avrei voluto che non mancasse al creatore pane e fuoco e non nascesse in una grotta, vorrei che nessun bambino ancora soffrisse il freddo, la fame e malattie e nascesse in squallidi abitazioni.
È un sogno?
Un’utopia?
Gli uomini, tutti sono portati a immaginare un mondo etico o soprannaturale e in questo collocare l’aspirazione a questa esigenza.
Si svolgevano le Olimpiadi ad Atene e un atleta vantava risultati prodigiosi nella città di Rodi.
Uno degli ascoltatori, non sopportando più tanta vanteria, apostrofò l’atleta dicendogli, “Hic Rodus hic salta”.
Apostrofando l’astante ateniese, direi: o uomo, questa nostra vita è l’unica verità incontrovertibile che conosciamo, perché non c’impegniamo qui ed ora per modificarla?
Lasciamo alle nostre coscienze, alla nostra cultura, alle nostre esigenze l’aspirazione in un mondo di verità e di giustizia, ma nel frattempo tutto il nostro impegno per migliorare questo.
Si dirà, come si dice, i governanti dalla notte dei tempi hanno fatto sempre scempio di verità, giustizia, e altro… non è cambiato mai niente non cambierà nulla.
Non voglio obiettare che non è vero, entrerei in un ragionamento che non voglio fare.
Dico che l’uomo, dopo millenni di storia: conquiste e sconfitte, si è dato, con l’approvazione delle Carte Costituzionali e i Parlamenti, il Governo del Popolo.
Il Popolo governa attraverso i suoi eletti.
Significa che quei signori che siedono in Parlamento, sono uomini al nostro servizio e non noi al loro.
È chiaro che questo può avverarsi solo se esercitiamo il nostro diritto-dovere al controllo.
Le Costituzioni determinano il sistema di governo e il nostro, come nella maggior parte dei paesi che contano al mondo, è democratico.
La caratteristica principale della democrazia è che dopo un tanto di anni si va a votare e si può cambiare chi governa se non ha fatto il proprio dovere.
Credo che ognuno di noi, anziché paventare un mondo di giustizia dell’aspirazione, dovrebbe impegnarsi per garantirla hic et nunc.
Come?
Controllando e impegnandosi a comprendere la vita pubblica.
Ciò non impedisce, né lede qualcuno nelle aspirazioni dell’anima.
Ora nella celebrazione della Natività tutti ci proponiamo d’essere migliori e nello scambio di auguri ci commuoviamo al pensiero di un mondo più giusto.
Sta nelle nostre mani un mondo diverso.
Non in un’aspirazione.
Allora voglio fare i miei auguri di Natale dicendo a tutti:
agli amici e non;
ai conoscenti e non;
a chi amiamo e a coloro che ci sono indifferenti;
a ogni uomo di buona volontà, che il Natale ci porti non a sperare, ma a impegnarci esercitando il nostro controllo, affinché tutte le aspettative, le aspirazioni che collochiamo in un mondo etico della non esistenza o di una esistenza che sarà ad avvenire, si realizzino qui con il nostro controllo e l’esercizio della volontà e dell’impegno.
Buon Natale a tutti e tanto impegno nell’etica della volontà.

Michele (san severo 24/12/2009 11.27.45)

mercoledì 23 dicembre 2009

Melanconia...

Tu, dei miei la Forma…
Dell’anima l’Essenza…
Dello sguardo la Musa…
Cuore, del mio perso…

Tu de l’intelletto Regina…
Genio dell’amore totale…
A catene d’oro mi leghi,
leggiadra sella è il basto.

Velo di occhi profondi,
di sorrisi di Melanconia
mi scruti il pensiero… e
il mio ammaliato ti doni.

In danze remote ti mostri,
su veli ornati di rose poggi
voluttuosa, e, a la mia arida,
porgi le labbra del tuo fiore.


Michele (23/12/2009 12.34.29)

martedì 22 dicembre 2009

Bugiardo...

Nessun mi crederà, eppur come bugiardo affermo il vero.
Dei tuoi profumi fiuto tutta la verità.
Assente nel buio, il tuo corpo flessuoso alle mie mani prive di tatto apre il fiore.
All’ascolto dei rumori sgrammaticati - dei suoni afoni delle coppe alzate alla sposa sciantosa, ansante piaceri ritmati -, porgo nel nero invisibile l’orecchio al precluso.
E godo dell’agonia della preda il battito nudo dei piedi bagnanti nel pozzo oscuro del piacere proibito.
Aspergo la fonte ascosta, e nel nero rifugio, abisso olezzante d’ingannevoli abusi, affondo il Nous.
Logos sostituto di bugie negate al vero, bitumato specchio immago inghiottita.


Michele (22/12/2009 20.51.22)

Ircocervi...

Ci son parole che suonano.
Pensieri che incantano.
I tuoi innamorano, cantano e in armonia ti portano.
Sulle loro ali attraversare il tempo.
Raggiungere l’Assenza e fermare l’attimo.
E Noi, in quello, consumare l’Indeterminabile.
Nella fissità scolpirne i volti: della tua Bellezza, dell’inquieta mia Essenza.
La Deformità - oscuro aspetto - e spazio e tempo assente, vivrà di Metamorfosi ne l’amore.
E vite sciupate e inconsapevoli nati e menti perse nel delirio, nutrire.
Acefali…
Amorfi…
Ircocervi…
Sembianze di vita di pensiero assente.
Amalgami deprivati dell’essere.
Noi, io e te.
Né tempo, né luogo, né parvenze vitali.
Nella fissità imperituri.
Etterni.

Michele (22/12/2009 12.09.40)

lunedì 21 dicembre 2009

Travaglio...

Da stamattina mi percuote il cervello e l’anima il motivo, “se fossi stato più generoso”.
Mi giustifico, ma evidentemente non riesco ad essere convincente.
Ieri l’altro, circolando in macchina per servizi in san Severo, notai un manifesto da lutto, per la morte di Teresa Tizio, vedova Caio.
Pensai, “Santo cielo! Mi dispiace, poverina”.
Un poco di anni addietro, mi trovavo nella mia banca per il disbrigo ordinario di alcune operazioni.
Mi approssimai allo sportello dove operava l’impiegato mio referente.
Altri clienti fecero notare che si faceva fila unica e dovevo accodarmi.
Chiesi al personale della banca in virtù di quale criterio e quale norma si stabiliva ciò. I toni un po’ si accesero e pretesi l’intervento del direttore.
Ho argomenti e tono abbastanza autorevoli e il direttore dovette convenire che non era il caso dell’unica fila.
Come succede in queste discussioni, a argomento chiuso, tutti dicono la propria.
Davanti a me stava la signora Teresa, del mio travaglio di stamattina, che certamente affascinata più dal mio aspetto che dal mio argomentare, mi dava ragione pur non dando torto alla banca.
Si sbrigò e, cosa alquanto inconsueta, mi salutò dandomi la mano.
Finite le operazioni uscii e in strada trovai la signora affaccendata a controllare varie ricevute.
Con gentilezza e dopo una captatio benevolentiae, mi chiese delle cose che compresi immediatamente strumentali.
La signora, decisamente carina, era d’anni un po’ più avanti del sottoscritto.
Si presentò, compresi chi era e iniziò a parlarmi della sua vita.
Mi esternò confidenze abbastanza dolorose e poiché sono molto sensibile al dolore altrui, misi da parte alcune riserve mentali e mi dedicai con attenzione alle sue doglianze.
Detti la mia disponibilità a seguirla per continuare il discorso.
Passo, passo arrivammo a casa sua e m’invitò a salire.
Ero un po’ titubante, ma non volendo sembrare scortese salii.
Il solito cerimoniale e poi iniziò a parlarmi del suo defunto marito.
Ad evitare che affermasse cose che facevano aumentare le mie accennate riserve mentali, le confessai che io suo marito lo conoscevo, che non proprio lo stimavo, e che, in qualche maniera, ero l’incolpevole fautore dell’inizio del declino della sua impresa.
Le spiegai che fui l’iniziatore della vertenza collettiva che i dipendenti della sua ditta iniziarono e che per la forte connotazione fascistoide e antioperaia del defunto marito, la vertenza precipitò e l’autorità giudiziaria ne decretò l’amministrazione controllata alla quale seguì il fallimento.
La signora Teresa si irrigidì un poco, ma con misurata disinvoltura corresse il suo parlare e iniziò una corte meno mascherata nei miei confronti.
Attratto dal suo aspetto abbastanza prominente, ma contrariato e dal cangiante comportamento, cioè dell’approccio ingannevole, poi accantonato quando il primo ha mostrato la corda, e dal ricordo di alcune confidenze delle dipendenti della ditta di suo marito, che questa signora era avvezza ad avere, prendersi tutto o con le buone o con le cattive, mi ricordai di un appuntamento vero, ma che in realtà avevo già perso a causa sua, e la salutai cortesemente andando via.
Rimase delusa le signora, molto rammaricato io che già scendendo le scale mi pentivo dello stupido comportamento.
La rinuncia a una combinazione che magari avrei cercato e contribuito a creare.
Non me ne facevo una ragione, certo non potevo – meglio, non ho avuto il coraggio di – tornare indietro.
Incontrai altre volte la signora Teresa che sempre con molto garbo e con sincera ammirazione e vera pudicizia mi invitava quando desideravo a farle visita.
Le mie promesse affermative erano sincere, ma non varcai mai quella soglia.
Non ho compreso il perché e non lo capisco tutt’ora.
Mi dispiace, però.
Ed è dispiacere vero.
Specialmente ora che lei non c’è più.
Avrei potuto donarle la gioia di sentirsi ancora donna desiderata, e non volendo l’ho certamente umiliata.
Perdonami, signora Teresa.
Chissà!, un poco di generosità in più, e forse un po’ di realistico carpe diem…
Ti sia leggero il viaggio, ora sai che non mi eri affatto indifferente.
Vale.


Michele (san severo 21/12/2009 9.01.51)

venerdì 18 dicembre 2009

I poeti...

I poeti sono uomini che giocano con le parole.
Non necessariamente le praticano nei giochi della vita.
Come i sacerdoti d’ogni fede e credo nella dicotomia tra il dire e il fare consumano la miseria che è dell’uomo.
Tutti.
Non avendo crociate da condurre, però, la loro caducità è riso beffardo, pianto sincero, dolore autentico, parola vissuta sulla condizione data.
Errante in cammino in terra sconosciuta.


Michele (18/12/2009 9.29.24)

mercoledì 16 dicembre 2009

Tu sei Bellezza e della Vita l’incanto...

Tu sei Bellezza e della Vita l’incanto.
Sei Cielo e dell’Universo la dimora.
Terra e degli Uomini l’ultima Vestale.
Della Giustizia la Dea occhiuta.

Il tuo Rosso espandi e dai vita ai colori.
Rubino prezioso arricchisci gli occhi.
La tua Nudità la Venere asconde.
La Dignità virginea a la Natura doni.

Incantato, dal tuo alito aspiro ossigeno.
Ammaliato, dalla tua bellezza la vita.
Catturato, dal tuo rosso l’ardito spirto.
E per conquistarti, l’Omo Novo faccio.

Michele (16/12/2009 10.49.52)

martedì 15 dicembre 2009

E io che d’amor puro t’amai, e...

E io che d’amor puro t’amai, e
di passate lacrime, or catene di
promesse desiderate, la parola
coniugo al sogno stramazzato.

Rialzati, oh mio, lei è aria che
si respira. È vento che carezza.
Acqua che disseta e fuoco che
scalda. Sguardo che consuma.

Lei è dei profumi regina. Dei
colori l’iride... di tutti i fiori il
campo. Di ogni cuore l’alveo.
Porto di mare… sicuro braccio.

Vetta, ognun scalatore il disio,
irraggiungibil meta. Abito di
seta frusciante... velluto, lembi
voluttuosi, di scarlatti fascinosi.

Sfinge, enigmi raffinati e Musa.
Versi danzanti per fini intelletti.
Corpo e sensi… invochi rovelli
i suoni, ei crine argenteo plachi.

Michele (15/12/2009 8.39.27)

sabato 12 dicembre 2009

No, bella signora, non son innamorato di te...

No, bella signora, non son innamorato di te!
Hai fascino e tanto, m’imbrigli. Confondi…
Interpreti il tuo ruolo di donna divinamente.
Le tue movenze… cultura… femminilità…

Voce d’angelo hai, se loro ne avessero una.
Sensuale e curata, moduli suoni poggiandoli
ai sensi. Vibri le corde come viola d’amore.
D’arpa virginea i consumati toni alti e bassi.

Leggera ne la foggia, spessore di polverosi
libri macini. Classica/moderna arte traghetti.
Compostezza dissacrante, affondi nel nuovo
le tradizioni. Caduca porti della memoria la

forza. Femminilità spandi e feromoni reggi.
Provocante nella marginalità e ne l’audacia
assente, nell’immanenza delle forme laceri
pensieri: brucianti spinte di castigati amori.

Viperina ne gli slanci di goffo ammantati.
No, non t’amo. Eppur avrei voluto viverti
per plasmarmi di te. Respirarti per sentirti.
Viverti per innamorarmi. Sognarti. Amarti.

Michele (12/12/2009 11.40.47)

giovedì 10 dicembre 2009

10 dicembre 1970

10 dicembre 1970

Ore 5.00, trilla la sveglia, la mano giovane della donna corre a schiacciare il meccanismo infernale che lacera l’ancora addormentato silenzio.
Veloce si alza a preparare il caffé al pur giovane marito che inizia il suo turno di lavoro alle 6.00.
La caffettiera già preparata dalla sera qualche minuto e sbuffa spandendo il suo alito caldo.
La fresca gazzella dalla grossa pancia s’approssima al letto pigro del recalcitrante dormiente.
- Dai, alzati. Fai tardi.
- Come stai, amore?
- Bene.
- Fammi vedere.
Il silenzio non fermò la mano che alzò la camicia e abbassò pudica lo sguardo.
- È incantevole, tesoro. È matura. È incredibilmente aperta.
- Non sento alcun dolore.
- È vero! È ancora molto alta la pancia. Vuoi?
- Ti bacio!? Sì, voglio baciarti, amore. Sei stupenda.
- No, fai tardi.
Gli occhi socchiusi che già gustavano le labbra tradivano le parole.
- Sì, amore. Sei dolce. È bello.
Qualche minuto e il piacere possedeva quel corpo rendendolo ancora più splendido nella imminente seconda maternità.
- Hai perso tempo. Farai tardi.
- Corro.
Pochi minuti per le abluzioni e l’orgoglioso marito e padre felice era pronto per recarsi alla Falck.
Era lì a poche centinaia di metri dalla sua abitazione, separata solo dalla linea ferroviaria e la statale Monza/Sesto: l’acciaieria emetteva un lamento continuo intervallato, con tempi regolamentati, da urli spaventosi che nonostante il saperlo e l’abitudine, ogni volta ti stracciavano la vita.
Guardò dai vetri del balcone non c’era luce, né aria, solo grigia nebbia.
Sì, abitava al quinto piano, ma santo cielo che tempo!
- Ti raccomando, non farmi stare preoccupato. Se avverti qualcosa, corri da Lina. Non fa niente se poi risulta falso allarme.
- Aspetta, aspetta… mi sento bagnata.
- Dio mio, vediamo… Sì, si son rotte le acque.
- Corro a chiamare Lina.
- No, aspetta.
- Corro!
Non più di un quarto d’ora e stanno sulla non comoda seicento che nella nebbia impenetrabile arranca, cercando di raggiungere l’ospedale di Sesto San Giovanni.
- Armando, nasce per strada. Corri per piacere.
- Come stai, tesoro?
- Non preoccuparti, non ho dolori.
- Dio, sta per nascere.
Piangeva. Non sapeva se per paura, dolore indotto, gioia. Era a un passo dal paradiso e gli sembrava l’inferno.
- Dio, non arriveremo in tempo!
Finalmente l’ospedale, corre, parla…
- Non si preoccupi, ora è qui. Ci pensiamo noi.
- È il primo?
- No!
Solo gli occhi dell’amata, cerca e non trattiene – come ora – le lacrime bambine.
Con calma esasperante, ignorando la sua sofferenza, finalmente conducono il suo amore, con il prezioso carico, nella sala travaglio.
- Ora lei si metta qui in corridoio e attenda.
- Non può entrare stanno altre partorienti.
Il tempo si era fermato.
Doveva avvertire la Falck.
Avrebbe messo in crisi il reparto, mancando il gruista.
Solo un momento: era più importante sua moglie e il nascituro.
Questione ancora di qualche minuto e poi si sarebbe recato al lavoro.
Alle 8.20 gli comunicano che è nato un bel maschietto.
Ride e piange.
Vorrebbe gridare e si contiene.
È confuso.
- Venga a vedere sua moglie e il bambino.
Entra, è bella la sua donna.
È magnifica.
Nessuna è bella come lei.
Ride immacolata e gli mostra il bambino.
Dio mio quanto è brutto, pensa.
- È bello, Michele?
- Sì!
Non ha il coraggio di dire quello che pensa e chiederle perché è così rosso e ha la pelle aggrinzita come un vecchio.
Come se l’avesse sentito:
- Hanno detto che è molto lungo e magro.
- Si rimetterà subito, anche se pesa tre chili e duecento grammi.
- Ora vai a lavorare. Vai a mangiare da Lina, già lo sa.
- Ci vediamo nel pomeriggio.
Non vorrebbe lasciarli. Vorrebbe tenerle la mano per sempre.
Si commuove ancora a pensare quanto l’ami.
- Che bella famiglia: un maschietto, una femminuccia e la più bella delle donne.
- Sono l’uomo più felice del mondo.
Non contiene lacrime e riso mentre percorre la strada per recarsi al lavoro.
- Meno male che la nebbia mi nasconde agli occhi degli altri, penserebbero che son matto.
- Papà ti ho ridato la vita.
- Ora esiste un altro Cologna Leonardo.
- Sì, non voglio che egli sia lontano dai posti che tu hai camminato, papà.
- Deve posare i piedi dove li hai posati tu, papà.
- Tornerò a San Severo.

Avrei potuto farti gli auguri del tuo compleanno nella maniera tradizionale, Leonardo.
Ho preferito farti la cronaca delle ore intorno alla tua nascita.
Forse ti resterà molto di più.
Trentanove anni fa, le paure, le ansie, le speranze e l’amore di quei momenti impressi per sempre nella mia mente.
Grazie, figlio amato.

Michele (san severo 10/12/2009 13.17.44)

sabato 5 dicembre 2009

Egli…

Egli…

e stava morendo…

Battute di caccia organizzava…
Pascoli da brucare camminava…
Olivi e frutti da consumare piantava…
Campi da seminare arava…
Parole per conoscere formulava…
Pensieri per penetrare strutturava…
Finzioni per comprendersi rappresentava…
Agorà per governarsi allestiva…
Città di Dio progettava…

Dal divino si slegava…
Umano si proponeva…
Felice si prospettava…
Ragione invocava…
Scienza e tecnica sperimentava…
Dalla fatica si sollevava…

Figli nutriva…
D’amori si dilettava…
Benessere anelava…
Diritti e bisogni codificava…

… egli, e la vita fluiva.

Michele (05/12/2009 9.53.53)

giovedì 3 dicembre 2009

Uomo, tu sovrano...

Uomo, tu sovrano, re di tutti i re,
poeta sommo,
amore dolce ed eterno,
non lasciare che questa invocazione
resti inchiostro su carta,
non permettere che queste parole
vergate con l’anima
siano dal tempo logorate,
che versi di tanta umana fattura
vengano conclamati al vento…

Ascolta la voce dell’Amore…
La supplica dell’Amante…
Il soffio caldo del Vento…
Le lacrime della Donna…

Raccogli tanta Bellezza…
Incidi nel tuo cuore le Parole…
Inclina il tuo capo coronato all’Amore…
Il tuo sentire piega alla Poesia.

Michele (29/11/2009 19.11.51)

Il giorno cede il passo alla sera…

Il giorno cede il passo alla sera… inizia il sentire.
La sera alla notte… e la vita fluisce.
Le imposte sul mondo e il tutto mi parla.
E ti sento voce di donna, e i tuoi occhi e l’aria.
E dei cotogni l’odore alle narici assaporo…
Del mare lo sciabordio, del cielo l’immenso.
La tua testa sulle mie ginocchia accarezzo.

Michele (28/11/2009 0.10.30)

Lentamente...

Le parole mi cercano, quando penso a te, amore.
Si donano ai tuoi occhi per apparire generose.
S’incolonnano miti al profumo del tuo parlare.
Immolano, liete vittime, alla tua passione l’ardore.

Raccontano dimesse a te le pene del mio cuore.
Convogliano in te le mie temerarie passioni.
Preparano la tua anima all’essenza del mio amore.
Soggiogano i tuoi occhi alla bellezza dei miei colori.

E noi, dai loro rivelati ammaliati, i sensi obnubilati,
cogli occhi ci teniamo e a loro gaiezza restituiamo.
Le mani invano cerchiamo e il tatto a loro affidiamo.
Il sogno coltiviamo e nei loro significati vendemmiamo.

Michele (21/11/2009 20.46.13)

… ma son solo il tuo innamorato…

… ma son solo il tuo innamorato…

Pennello nelle tue mani…
Colore dei tuoi sentimenti…
Parete bianca delle tue attese…
Passione scarlatta dei tuoi peccati…
Lucciola della tua notte…
Stella riflessa del tuo amore…
Pioggia dei tuoi occhi…
Iride della tua fantasia…
Foglio immacolato dei tuoi versi futuri…
Essenza dei tuoi inebrianti profumi…
Sguardo dei tuoi occhi innamorati…
Oblio dei desideri tuoi oscuri…
Sogno del tuo vegliare addormentato…
Sapore delle tue labbra mai assaggiate…
Mascara delle tue ciglia imbellettate…
Parola della tua voce d’amore afona…

Se fossi poeta così a te mi racconterei…
E a mani tese a te in ginocchio m’approccerei…
Ma son solo il tuo innamorato…
E a pronunciar parola or mi manca il fiato.

Michele (21/11/2009 13.21.09)

mercoledì 2 dicembre 2009

Lucida follia...

Sento la vita con lucida follia, e comprendo che non mi appartiene.
Sono osservatore che la vive con lo sguardo camminandoci dentro.
Tutto si imprime nella mia memoria, che è vissuto e non osservato.
Sento con l’anima che cammina le intelligenze che si dipanano scialbe.
Provo repellenza per le mie mani che si muovono indipendenti e le osservo estranee.
Il mio corpo distaccato reclama bisognoso e mi causa pena la sua urgenza gregaria.
So di scontare pena per colpa non commessa: uno stralcio d’eternità cacciato a forza in un corpo grezzo, primitivo, perituro.
Con lucida percezione conosco la libertà dell’eterno, ma accarezzo la prigione e ne coltivo la cura.
Giardiniere pazzo, coltivo l’orrore delle erbacce e soffoco nell’incuria il fiore.

Michele (02/12/2009 19.44.24)