sabato 29 maggio 2010

Ossigeno…

Ossigeno…

Assente negli occhi lo sguardo,
fissità al vuoto tende la pupilla.
Del suo suono aritmico, respiro
riempie della stanza il silenzio

che ora supplica al cielo la vita.
Corpo, sacca sul letto poggiata,
fardello di vestigia d’uomo, ora
privato del tempo che fu, giace.

Mani tendono al vuoto la fatica,
e disegnati di operosa memoria,
svelano di padre annosa premura
e d’amante, che a cercare mano

dita fremono. Inerme di giorni
ceduti alla giustificazione, voci
d’indistinti articolati raccoglie e
nel nulla porge l’antico pianto.


Michele (s. severo 29/05/2010 21.15.35)

giovedì 27 maggio 2010

Saggezza…

Saggezza…

La saggezza consiste nel trovare sempre continuità nella “cosa” e nella relazione con chi di essa ne fa uso?
Nel rapporto tra il dato reale e le aspirazioni di chi di esso vive?
Oppure a volte nella rottura brusca, violenta, nel troncamento della relazione?
Nella cesura tra un essere stato e un’impossibilità alla continuità?
Domanda che l’uomo normalmente non si pone perché nella continuità sta il suo essere.
La cultura, la storia, la soggettività, le aspirazioni etc.
E quando la continuità è impedimento insormontabile all’esplicazione del suo essere?
Si porta cadavere o nasce a nuova vita?
Trascina con sé il tutto con la certezza di restare schiacciato dal fardello, oppure si libera di una parte di esso?
Liberare una parte e avanzare nella continuità lasciando indietro il meno essenziale, e continuare nel viaggio costruiti?
Disfare il tutto è intraprendere un percorso nuovo con la leggerezza del nascituro?
Domande radicali.
La saggezza è ancora utile a dare risposte?
È compito della saggezza rispondere a esse, oppure dell’uomo fuori da essa?
La saggezza non è dell’uomo una costruzione?
Se sì, come di fatto è, essa presuppone un uomo costruito.
Ma non è l’uomo costruito che ci ha portato alla domanda se abbia ancora senso la qualità della saggezza.
È l’uomo costruito, quindi, che mette in crisi la saggezza e la pone nell’inefficacia.
Sta allora nell’uomo così come s’è costruito il cuore della domanda.
Che fare, dunque?
Spogliarsi della costruzione è condizione necessaria per recuperare l’uomo e con lui la saggezza.
Non potendo pensare di creare un uomo nuovo, perché non ne abbiamo la qualità, dobbiamo cercare di fare ciò che è nelle disponibilità, possibilità dell’uomo: Costruire l’Uomo Nuovo.
La costruzione presuppone un troncamento radicale con la continuità.
Nascere nuovo essere.
Distruggere ciò che si è stati.
Decretare la morte dell’uomo alienato nella sua struttura.
Praticare, cioè, la rivoluzione del sé medesimo.
La Rivoluzione rigeneratrice.
Distruggere per costruire.


Michele (s. severo 27/05/2010 10.56.12)

martedì 25 maggio 2010

Preghiera…

Preghiera…

Oh Vittima!
Mia diletta, non abbandonarmi.
Sai quanto io t’ami.
Non ti ho forse dimostrato con accanimento il mio amore?
T’ho sollevato mai dall’oppressione dei miei abusi e soprusi?
Dalle mie regole?
Dimentichi, ingrato, tutti i sacrifici, le privazioni che t’ho obbligato ad affrontare per i miei privilegi?
Ora che siamo quasi alla fine, ora che mancano solo alcune cosette per privarti del tutto di ogni tua prerogativa, diritto, volontà: mi abbandoni?
Ti ho tolto tutto, averi, dignità, diritti inalienabili: l’acqua, l’aria, la libertà perfino, ora non collabori!?
Mi abbandoni!
È vero che la riconoscenza non è di questo mondo!
Ho faticato per tutto questo.
Senza soluzione di continuità, teso a raggiungere l’obiettivo del mio unico bene per far stare a te servo, di riflesso meglio, ora che mi sono logorato per questo e ho bisogno della tua ulteriore collaborazione, mi lasci?
Ingrato!
Vedi il mio polso slogato a furia di menarti fendenti!
Ascolta questo cuore piagato per l’amore che t’ha riversato!
I miei figli che ho sacrificato al tuo bene!
Sacrifici, fatica inutili se tu non mi sorreggi in quest’ultima fatica.
Abbracciami, servo!
Se muoio io, tu mi seguirai; se io mi salvo, tu ti salverai.
Pur in ruoli diversi, il destino ci ha uniti: tu a ricevere io a dare.
Credi che non sia faticoso dare frustate da mattina a sera!
Pensi che io mi diverta?
Tu provi dolore a ricevere, io tantissimo a dartele.
Usa giudizio ancora una volta, Vittima.
Salviamoci dalla catastrofe che tu con la tua resistenza a non ricevere più frustate hai creato, e poi tutto tornerà nella normalità: tu metterai la schiena e io il braccio che governa la frusta.
Come è sempre stato, e sarà.
Ama, Vittima, il tuo Carnefice.
Così sia.


Michele (s. severo 25/05/2010 9.20.01)

mercoledì 12 maggio 2010

piangete…

piangete…

gote della stessa mamma scolorano
al cielo e smunte parole di suono
sfocato inascoltate s’alzano a Dio

lacrimate…

immagine sazia di straziato dolore
posa le braccia che inermi pendono
alla terra ignara all’immanenza sua

osservate…

affanni di vita amara non reggono
il peso e fardelli prima impossibili
lasciare giacciono ora di sorte privi

occhi…

sguardo d’inconsapevole vuoto ruota
il nulla e rimorsi ripudiati svaniscono
il tempo che d’assente senso dissolve


michele (s. severo 12/05/2010 10.49)

lunedì 10 maggio 2010

Stamattina…

Stamattina…

L’aria quieta, stagna del mattino,
non smuoveva neanche i destini.
La bruma dorata e dal sole baciata,
pascolava silente, l’ignara natura.

I rintocchi, del suono il Frate,
n’espandevano il cammino.
Andavo e negli occhi il cuore,
negli orecchi lo spartito.

Le rose del trascurato giardino,
parlottavano sbarazzine.
Che riferissero all’argentei olivi,
presi, fermi ad ascoltare!?

La rossa voluttuosa le labbra dava,
alle canarine deliziose e invidiose.
Le striate chiacchierine alla mesta
cinerea: lì a rincuorare e carezzare.

Ritratto, il sole colora goccioline,
turbate e di luce innamorate.
Gargano di maestosa ombra a
troneggiare, ora dal chiaro oscurato.


Michele (s. severo 10/05/2010 11.10)

martedì 4 maggio 2010

Ferma…

Ferma…

Occhi posano sul già visto lo sguardo, e di lacrime che scendono percorrono i passi.
Terreno già arato non sfiorano i piedi, che alati alla meta si portano felici.
Giorni recenti di memoria amari, ripongono nella speranza del domani il riscatto.

Ora l’orma calca antiche forme, che del padre conducono i segni e geme.

Sorriso non regge al pianto e lascia il freno:

luoghi rievocano voci e suoni non scordati…
mani assenti tendono al passaggio carezze…
tenerezze di giochi osservati richiamano nenie…

Tornano i conti delle sgambate,
e monelli ancora nudi…
del viso emaciato che di scarlatto -
incanto - offriva le grazie, alcuna ombra.

Il ritorno dolore antico che il presente non sana.


Michele (san severo 04/05/2010 9.48.59)