mercoledì 25 febbraio 2009

La ragione per la quale uno scrittore scrive

Parliamo di scrittori.
Chiaro, quelli veri.
Non di coloro che, come bambini delle Materne, sporcano i fogli e credono di aver creato l’opera d’arte.
Qual è la ragione per la quale uno scrittore scrive!?
Per fare soldi?
Essere ammirato e gratificato da una moltitudine di fans, ancor meglio se giovani e belli?
Essere ricordato a futura memoria, magari per il tramite della propria effigie?
Oppure, ancora, per assaporare la vertigine postuma di qualche strada a proprio nome?
Tante altre ipotesi simili potrebbero essere formulate, e tutte conterrebbero una briciola di verità.
Ma la ragione più autentica, vera qual è!?
Perché uno scrittore si sottopone alla fatica di scrivere?
Azzardiamo qualche congettura: forse per comunicare il proprio pensiero!?
Chissà, per parlare ai posteri anche quando egli non farà parte più della comunità dei viventi!?
Per lasciare una testimonianza dell’epoca, del periodo, di un accadimento?
Forse perché pensa così di onorare il Logos, la Parola che è l’unica cosa che fa la differenza con gli altri animali!?
Queste supposizioni se non contengono tutta la verità una parte consistente certamente sì.
Fermiamoci.
Quest’estate, ultima settimana d’agosto, son venute a trovarmi a San Severo due amiche francesi, Mireille e Maryse, conosciute in internet.
Entrambe queste signore, di età attempata 67 e 62 anni, amano la lingua e la letteratura italiana.
Per integrare il ritratto, o marcare la differenza con la nostra mentalità che erige mille impedimenti alle nostre ragazze, diciamo che 50 anni fa, queste allora signorine son venute in Italia, soggiornandovi un anno, - una presso l’Università di Siena, l’altra presso quella di Napoli – per sostenere l’esame di lingua italiana.
Ora una è in pensione, Mireille e l’altra, Maryse insegna in Germania, ad Amburgo teatro francese.
Con delle persone che amano l’arte, la letteratura di che cosa vuoi parlare se non di arte e letteratura?
Stava Maryse leggendo le Novelle del Verga e quasi tutti i giorni me ne scriveva stupita ed estasiata.
Suggerii lei il capolavoro dello stesso i Malavoglia e partendo da questi le descrissi un po’ il nostro Mezzogiorno e, a mia volta innamorato, la nostra civiltà contadina.
Le parlai delle antiche produzioni, del nostro territorio.
Degli usi e costumi da tempo dismessi e ora più che mai.
Della laboriosità di coloro che avevano trasformato una terra assetata in giardino.
Dei vigneti a filari, degli olivi, i cotogni, i mandorleti che si stendevano a perdita d’occhio.
Dei cafoni afoni per cultura scolastica ma che la sera, dopo una giornata di duro lavoro, tornando a casa a piedi o i più fortunati in bicicletta, omaggiavano le loro signore con un garofano rosso. Fiore immancabile in ogni pezzettino di terra.
Il pezzo di terra come salvadanaio per maritare le figlie.
Il duro, duro lavoro e la grande serenità, l’intelligenza di un popolo che il grande meridionalista Tommaso Fiori aveva definito “un popolo di formiche”.
Parlando di tutto ciò potevo non accennare del più grande sanseverese che di questa dura civiltà ne ha scritto commosso pagine indimenticabili?
Il nostro Verga: Nino Casiglio con i suoi “Acqua e sale”, “Il Conservatore”, “La Strada Francesca”, “La Dama forestiera”…
Accesi tanto la loro curiosità che nel programmare le loro ferie inclusero una settimana per visitare San Severo, Monte Sant’Angelo, Vieste.
Evidente e grande fu la loro delusione nell’osservare il contrasto tra la bellezza del paesaggio e il degrado della nostra campagna.
Dappertutto terra bruciata. Arsa dal sole ma ancor più dalla mano dei nostri fieri “imprenditori” agricoli (non contadini, questi sono altra cosa).
Altrettanto sbalordimento nella forte contrapposizione tra la bellezza del nostro centro storico e l’abbandono, la sporcizia, la stravaccata sguaiataggine dei novelli abitanti dello stesso.
Mi sentii ladro delle loro aspettative.
Li condussi da Notarangelo con l’intento di sdebitarmi donando loro qualche libro del nostro Verga: Nino Casiglio.
Nessuna disponibilità.
Nino Casiglio è afono.
La sua voce, il suo pensiero sono morti. Con lui.

giovedì 19 febbraio 2009

Il Gesto

Non condivido niente di Berlusconi.
Se fosse possibile in un soggetto sì fatto la divisione tra l’uomo, l’imprenditore e il politico, affermerei né come uomo, né come imprenditore, né come politico.
Niente di niente ci unisce.
Nessuna cosa mi rende a lui simile o vicino.
Neanche l’umanità.
Penso che egli sia qualcosa d’altro, appartenga ad altra genia.
Lo detesto a tal punto che a volte, con grande rincrescimento, provo per il soggetto ripugnanza fisica.
Ancora più incredibile, mi son sorpreso spesso a pensare che la moglie lo tiene lontano in quanto provi la stessa, identica repulsione che suscita in me.
Non mi gratifica quello che ho affermato, ma è la verità.
Eppure, quando Berlusconi per ben due volte soccombé all’avversario Prodi, provai per lui umana pietà.
Tutto il mio sentimento negativo si sciolse e nessun pensiero di scherno, davvero nessuno mi sfiorò.
Mi facevano rabbia tutti coloro che non rispettavano la sconfitta dell’uomo.
Uno per tutti quel Diliberto che per molti aspetti speculari gli somiglia.
Poi, l’uomo è quello che è: un manipolatore di verità, ed anche le sconfitte le trasforma in vittoria… Ma questo è un altro discorso.
Non sono mai riuscito a provare alcuna soddisfazione, anzi ho sentito autentico dolore nel vedere le immagini trasmesse dei cadaveri - per giunta insultati - di dittatori spietati come Mussolini, Saddam Hussein, Ceausescu.
Ho provato perfino pietà nel vedere il cadavere esposto di quell’essere repellente, vigliacco, viscido, ignominioso di Pinochet.
Infierire sui vinti non mi appartiene.
Gioisco per la vittoria dell’atleta che taglia il filo di lana, ma mi commuove quello che non ci arriva. Lo sento fratello.
Il suo calvario diventa il mio.
Se poi l’uomo di sua volontà fa, compie, pratica il gesto: il gesto redimente, il gesto di mettersi da parte…
Quello è il momento più alto di un uomo.
L’uomo che si riappropria di se stesso, della sua umanità.
Quell’uomo che ha praticato il gesto riscatta ogni colpa, miseria, peccato.
È un uomo redento, pari a un dio.
L’innominabile Cossiga allorquando consumò il gesto della sua vita - l’unica vera cosa che salverà, riscatterà l’uomo, libererà la sua anima – dimettendosi, e così segnando la propria sconfitta, raggiunse vette che mai più ha raggiunto.
Neanche la travagliata Presidenza della Repubblica gli ha dato onore, lustro come quel gesto.
Tutti gli animali, nessuno escluso, quando la competizione, la lotta per il dominio è cessata per sottomissione – tramite segnali (gesto) – dell’altro, cessa l’aggressività.
Il vincitore, nei canidi, addirittura lecca le ferite dell’altro.
Ma sì, è vero!, quelli sono animali, noi siamo uomini.
Direttore Giordano, chi è più fallito lei o Veltroni?
Berlusconi, quando lei raggiungerà la consapevolezza, la comprensione, lo spessore culturale, civile e politico di Veltroni, potrà iniziare a considerarsi uomo.
E chissà che, poi, per il tramite del gesto non riscatti pure lei la sua deprecabile vita!

martedì 10 febbraio 2009

Ho il cuore che sanguina stamattina

Ho il cuore che sanguina stamattina.

E quando il cuore sanguina, le ferite che una vita già lunga di sessant’anni ti ha inferto tornano a ruttare sangue.
Dolore.
E la vita ti fa male.
Ti duole come un lutto al presente.
Pure le ferite che credevi cicatrizzate si riaprono e…
Ho amato mia suocera come ho amato mia madre.
Una grande donna. Una dignità infinita. Parsimonia e generosità. Rigore.
Compostezza e misura.
Una persona speciale che solo quando hai avuto la fortuna di conoscere ne comprendi il valore: la portata.
Era il 1982, mia moglie mi disse che la mamma non si sentiva molto bene e, contro il parere delle figlie, non voleva chiamare il medico per farsi visitare.
Sapendo che mia suocera mi teneva in considerazione, mi recai a casa a farle visita, e fingendo di non sapere nulla, poiché stava a letto le chiesi: “Mammà cosa è successo? Non ti senti bene?”.
“No, Michele, sto bene! Non preoccuparti.”
“Come stai bene e ti trovo nel letto!? Che ti senti?”
“Niente, figlio mio! Niente!”
Mi avvicinai al letto, le presi la mano: “Mammà, dimmi, perché fai così!”.
“Quelle – riferito alle figlie – non si fanno mai i fatti loro.”
“Mammà, se non ti senti bene, questi sono anche fatti nostri!”
Era il suo viso tutto chiazzato di rosso. Mi resi conto che non era un malanno da poco e visibilmente commosso, le dissi: “Mammà, ti prego, dimmi cos’hai!”.
Apro una parentesi per dire che l’appellativo di mammà con il quale a lei mi rivolgevo mi riempiva di gioia.
Mi faceva sentire parte di lei.
Dava al bene che per lei veramente sentivo quella valenza di amore filiale.
Le parole sono realtà, fatti, cose. E la parola mammà mi donava quell’appartenenza che non avrei mai raggiunto se non l’avessi usata.
Ho faticato tanto all’inizio perché non riuscivo a pronunziarla, ma poi, quando finalmente ci sono riuscito, mi ha ripagato con un sentimento di soddisfazione e di comunione infinita.
Quanto ha significato quella parola nelle crisi che ogni matrimonio - anche il più riuscito – affronta, deve fronteggiare!
Ti lega indissolubilmente!
Chiusa parentesi.
“Sono un po’ di giorni che non riesco ad urinare. Ti prego, Michele, voglio morire nel mio letto. Non portatemi all’ospedale.”
“Ma, mammà, sei giovane ancora – aveva 69 anni - perché pensi che devi morire? Ti supplico, fatti portare in ospedale!”
“No, se entro in ospedale non uscirò viva!”
Con le lacrime agli occhi, come ora che ne scrivo, “Mammà, vedrai che non sarà come pensi tu. Se le cose si complicheranno, però, ti giuro che ti porterò a casa. Mai ti farò morire in ospedale”.
“Michele, tu non sei come gli altri generi, di te mi fido: se me lo prometti…”.
“Te lo giuro, mammà!”
Entrata nell’ospedale della mia città – in quel periodo a me del tutto sconosciuto: una struttura funzionale solo agli operatori che ivi stazionano; un nosocomio che si giustifica solo per elargire stipendi e far crescere la spesa pubblica – viene messa in isolamento.
Una massa d’incompetenti che brancolava nel buoi più nero. Nonostante tu facessi notare loro che, essendo inibita la minzione, poteva semplicemente trattarsi di un blocco renale: non era possibile! Certamente era un’infezione.
Per un po’ di giorni le munsero sangue come latte ad una vaccina fino alla minaccia di rivolgermi ai carabinieri se non mi avessero detto la diagnosi.
Non lo sapevano e all’indomani l’avrebbero trasferita a Foggia.
Le cose precipitarono e venne portata la notte stessa all’ospedale “Davanzo” di Foggia. La mattina seguente qui la trovammo intubata e in rianimazione.
Nessun permesso d’entrare.
Attesa per sapere: “Complicanze polmonari a seguito di blocco renale.”.
Dopo alcuni giorni mi diedero il permesso d’entrare.
Coperta da un lenzuolo bianco, le spalle e le braccia scoperte, gli occhi chiusi, un respiro faticoso, era bellissima.
“Mammà!”
Le carezzai il volto, le toccai il braccio, “Mamma, sono Michele, mi senti!”.
Si aprirono gli occhi e uno sguardo mi fulminò.
Lo sento addosso ancora oggi come una frustata.
“Mammà, non è colpa mia! Credimi.”
Non aprì più gli occhi, annuì con la testa.
Avevo tradito la sua fiducia.
Appena fuori mi recai dal primario per chiedergli di potermi portare a casa mia suocera.
Farla morire nel suo letto.
Era una promessa.
Fino a quando le condizioni erano quelle, egli non aveva nessuna possibilità di farmela portare. Se fossero peggiorate, si impegnava ad avvertirmi in tempo per farla morire a casa.
Passò qualche settimana, giunse l’inutile telefonata.
Ci precipitammo con l’autoambulanza e come ladri frettolosi ce la portammo via.
Non ce la fece a raggiungere casa sua.
Spirò per strada.
Non le venne concesso di morire nel suo letto.
Non mi fu dato di rispettare l’impegno assunto.

Michele Cologna
San Severo, 10 febbraio 2009

https://www.facebook.com/notes/michele-cologna/ho-il-cuore-che-sanguina-stamattina/50406912479/?comment_id=10157997713517480

https://www.facebook.com/michele.cologna


venerdì 6 febbraio 2009

Governanti e politici acefali

Cos’è che li rende insopportabili?
Irresistibilmente odiosi!
Chiaro!, sto parlando di costoro che ci governano.
Non riesci a trovare un motivo forte che giustifichi tanto epidermide fastidio, tanta viscerale antipatia.
Come pure non trovi comprensione alcuna per coloro che si pongono in atteggiamento dialogico con essi.
Un imperativo categorico che ti inibisce una qualsiasi condivisione, ti proibisce ogni tentativo di approccio di pensiero.
È da tanto che mi pongo queste domande, mi chiedo il perché e non trovo risposte.
Non vi è un solo ragionevole supporto a questo sentire che – tra l’altro - non mi appartiene.
Quanti governanti, politici, intellettuali, giornalisti non ho condiviso!
Sono grandicello, e ne ho viste, ne ho sopportato, ne ho sofferto!
Eppure sono riuscito sempre a trovare una ragione, molte volte comprensione, se non proprio condivisione per le altrui posizioni, argomentazioni, opzioni.
Ho saputo sempre ascoltare, modificare, integrare i miei ragionamenti, le mie convinzioni, le scelte.
Caro presidente Fini, il tuo dubbio salutare che ora inizia ad abitarti, in me ha avuto stabile residenza fin da giovanissima età.
È la vecchiaia, gli anni che mi portano a questa intransigenza?
A questo fastidio, questo senso – chiedo perdono per il termine – di ripugnanza nei vostri confronti?
Dico queste cose con grande sofferenza, egregi signori!
Non fa per niente piacere arrivare a sessant’anni e scoprire di non condividersi.
Trovarsi a pensare cose che mai per cultura, formazione, educazione e senso d’appartenenza a una civiltà avrebbe creduto possibile poter pensare.
Questo tormento stamattina - durante la mia ora di cammino, prima di mettermi a lavorare – penso si sia disvelato.
Credo d’aver compreso la ragione di questo coacervo di sentimenti già descritti.
Riuscirò a spiegarla a me e a coloro che mi leggeranno?
Lo spero!
Questi signori che ci governano - e senz’altro possiamo includerci parte consistente di coloro che fanno politica oggi - si propongono non perché hanno un pensiero, un progetto politico, un’idea di società, un sentire pubblico, una finalità culturale, sociale, civile.
No!, niente di tutto ciò li coinvolge, li sfiora.
Sembra non abbiano pensiero immediato, né prospettico.
Acefali.
Gli accadimenti, gli eventi li interpretano, li seguono, li curano non con l’intelletto. No!, col corpo.
Una politica fisica!
Una politica della fisicità onnicomprensiva.
La loro corporeità è la politica, il programma, la soluzione.
Il loro “io corpo” è progetto, esempio, soluzione.
Non hanno un io pensante, assolutamente no!
Un io padrone non incline al pensiero che divora loro per primi, poi tenta di cannibalizzare gli altri da sé e, infine, con inaudita ferocia il diverso.
Il diverso è tutto ciò che non li somiglia per aspetto, colore, identità, civiltà, cultura.
Loro, l’io corpo è la misura delle esigenze, delle necessità, delle priorità della “gente” (non esistono cittadini), della politica di cui il paese necessità.
Esigenze al di fuori dell’io espanso a volere della gente: l’Io Vero, l’Io Unico, l’Io Eletto non ne esistono.
Sono tutte false esigenze: frustrazioni di poveretti da sollevare dall’indigenza politica; invidia di straccioni da redimere; rivalse di comunisti assassini da rieducare; pretesti di sconfitti dalla storia, di non emancipati, di non idonei a comprenderli.
Loro, l’io espanso dell’uomo nuovo, sono le esigenze e la soluzione.
Infallibili, non sbagliano mai: sono la verità.
Se avvertono un problema di giustizia: quella è un’esigenza vera, da affrontare e che se gli altri non sentono è perché sono complottatori, giustizialisti, nemici.
Se Regole, Leggi, Diritti, Costituzione non sono in sintonia con le loro esigenze si cambiano.
Il loro sentire è costituzione, diritto, legge, regola: sono stati unti dal suffragio del dio-gente che li ha consacrati ministri.
Come tutti i ministri di ogni culto sono gli unici rappresentanti e interpreti della verità.
Sono la Verità.
Non so il motivo ma nello scrivere questa nota mi è tornato ossessivamente in mente il titolo di un libro letto più di dieci anni fa “Un uomo che forse si chiamava Schulz” di Ugo Riccarelli.
Non lo ricordo bene e non sono in grado di spiegarmi il perché.
Andrò a rileggermelo: che mi apra qualche spiraglio!