martedì 27 ottobre 2009

Domenica 28 ottobre 1962

Domenica 28 ottobre 1962

Domani mercoledì 28 ottobre 2009, quanti anni.
Quarantasette compiuti.
Una vita.
Io avevo quattordici anni e tu cinquantasei.
Io un ragazzo che non si sentiva amato, tu un uomo non stanco ma malato, dal cuore infartuato.
Da qualche anno, padre mio, ti ho superato.
Son diventato il tuo fratello maggiore.
Ne ho compiuti sessantuno a marzo.
Forse oggi mi dovresti quell’ascolto che non hai mai dato a me, né a chi ritenevi a te inferiore.
Molti in verità.
Eri generoso assai, vero.
Avevi un cuore d’oro come tutti affermavano, certo.
Ma praticavi delle ingiustizie enormi, evidenti, esagerate ma che a te sfuggivano.
Non le vedevi.
Certo nel tuo mondo tu avevi responsabilità di ogni cosa.
Il patriarca che governava educando e rigoroso applicava le regole con occhio di riguardo al proprio sentire.
Chissà, se litigheremmo!?
Peccato che la sorte non ci abbia dato questa possibilità di riscontro.
Incredibile, o padre, come somigliamo a coloro dai quali vorremmo prendere le distanze.
Ho tenuto sempre in mente le poche cose che mi hai detto nel breve tempo che il fato ci ha concesso di vivere accanto.
Mi sono state utili e mi hanno indicato la strada che non dovevo percorrere, ma m’hanno anche spinto nei confronti degli altri a comprendere come non dovevo comportarmi.
Tu eri padre e padrone, le mie tendenze mi porterebbero a te.
Mi scopro a pensare quello che certamente avresti pensato tu.
Però interviene la mia ragione e il nous mi corregge.
È stato, è un dibattito continuo tra me e te.
Ho cercato di non imitarti seppur somigliandoti.
Vorrei ora che tu poggiassi la testa sui miei ginocchi, padre, e mi parlassi.
E mentre io carezzo i tuoi canuti anni, consegnassi a me le tue angosce custodite nel silenzio del tempo.
Quante cose avresti da dirmi.
Domande io da farti.
Antico sei stato tu, antico pure io, padre.
Ma quanta diversità nell’espressione della nostra.
Certo non è possibile nella realtà che questo accada, ma se il pensiero formula: la realtà potrebbe solo essere una cattiva imitazione.
Per tanti anni sei venuto nei miei sogni e non hai mai risposto alle mie domande.
Impassibile nel tuo ostinato silenzio.
Poi quand’io ti ho sopravanzato in anni, cosa che non avevo mai ritenuto possibile, tu ti sei sciolto e hai rotto il silenzio.
Ora ci frequentiamo poco nel sogno è vero, ma ci parliamo e tu mi ascolti.
Hai cercato anche delle giustificazioni che non condivido pur comprendendole.
Ma questi ragionamenti abbiamo tempo per farli.
Tu per il tempo che il fato ha assegnato a me, perché vivi e esisti nella mia memoria.
Io per quello stesso tuo.
Cesserò io e cesserai tu.
Non si è ancora sciolto il vincolo, padre.
Neanche la morte può sciogliere ciò che la vita ha generato.
L’uomo è perdente contro la Morte, sempre.
Ma la sconfigge nella Mente con l’arma dell’appartenenza che è vita traslata.
Oggi, tuo quarantasettesimo anno della tua esistenza in morte, o padre mio, mi trovo a sentirti ancora così vicino e palpitante.
Più di quanto gigante immobile sul letto ti adagiai con il tuo flaconcino di pillole stretto nella mano.
Dice un vecchio adagio che quanto più ci allontaniamo dalla fanciullezza tanto più la viviamo reale, struggente.
È vero, padre!
La sento vicino e cogente, manca del dolore della costrizione però, ed è dolce come cullarsi tra le tue braccia che non ricordo l’abbiano mai fatto.
A te lunga vita nella mia, padre.
Siamo memoria.
Al di fuori nulla siamo.
È dolce tenerti per mano, fratello ora minore, nel giorno del tuo anniversario.
Vale.

Michele (san severo 27 ottobre 2009 - ore 8.43.09)

domenica 25 ottobre 2009

Ora…

Ora…

La mia anima: deserto che conserva graffiti scavati nella roccia graffiata dal vento incessante.
Il mio sguardo sofferente, civiltà sepolta.
Detriti lacrimano i miei occhi, pioggia della storia dei vivi.
Assente la mia Mente negli occhi di mio figlio.
Arso il mio pensiero inutilmente si bagna nell’acqua stagna della vita.
Frigido il piacere attraversa il mio corpo... e accarezza la fine.
Nessuna storia narrerà la storia.

Michele (san severo 25/10/2009 19.58.52)

giovedì 22 ottobre 2009

Sfrido

Non volevo alcuno spazio per me.
Mi ci hanno messo mio malgrado.
Non ho pregato nessuno di portarmi qui.
Non m’hanno chiesto permesso per scaricarmi nella mischia.
Mi trovo abitante mio malgrado.
Passeggero che non ha pagato il biglietto.
Esistente contro voglia.
Superfluo nell’essenza.
Residuo di sfrido non riciclabile.
Aporia del sensibile.
Ho incespicato fin dai primi passi e m’hanno frustato.
Mi son tirato in disparte e disprezzato.
Da soma a gaudente: nessun pensiero.
Il pensiero cammina con l’esistenza e la vede.
Gli incauti l’ignorano, si rimirano e non ti riconoscono.
Ne avvertono il disagio e ti disprezzano.
Nelle ombre della sera e rasentando i muri mi son raggiunto.
Abito la casa con le imposte chiuse.
Esco a fare la spesa e godo il cilicio della comunanza.
E trascino il giorno a sera.
Ora dormo e realizzo il pensiero.

Michele (22/10/2009 16.39.28)

lunedì 19 ottobre 2009

L'uomo, il cane e la cipolla...

Questa è storia vera.
Bambino, non avevo più di sette o otto anni, in campagna da mio padre lavorava come bracciante giornaliero un certo Giuseppe.
Uomo di legno.
Non aveva un’onza di carne addosso.
Ossa e pelle.
Pelle olivastra, molto scura.
Una pertica.
Padre di numerosi figli e due di questi, Michele e Domenico, lavoravano anche loro nelle terre paterne.
De Domenicis faceva di cognome, ma lo conoscevano col soprannome di “zecchinetto”.
Non so cosa volesse significare di preciso il nomignolo, ma penso che avesse attinenza con la moneta lo zecchino.
Gran lavoratore.
Dove prendesse le energie per lavorare: un mistero.
Nella pausa dalle dodici alle quattordici d’estate, di un’ora sino alle tredici d’inverno, per consumare il misero pranzo che si portavano in campagna, Giuseppe veniva spesso invitato dai colleghi e commensali a raccontare la sua storia.
Non si sottraeva, la raccontava con dovizia di particolari e gran divertimento suo e dei cafoni che si ponevano in circolo, seduti a terra, a consumare.
Giuseppe aveva lavorato per moltissimi anni presso la distilleria della famiglia Ceparano.
Famiglia napoletana che vantava antica nobiltà e di condizione molto agiata.
Aveva tre distillerie a San Severo e altre a Nocera Inferiore (NA).
Già il papà di Giuseppe aveva lavorato presso la stessa e, come spesso succedeva, il figlio ha prima accompagnato il papà, poi ne aveva preso il posto.
Era nato Giuseppe nei bassi che la distilleria faceva abitare ai propri lavoranti.
Case non si potevano chiamare e baracche nemmeno.
Erano una via di mezzo.
Senza acqua, fogna e servizi che erano un lusso.
E così Giuseppe conduceva la sua vita tra fatica e poco cibo.
Gli capitò la disgrazia di sposarsi e il misero obolo che era la sua retribuzione diventava sempre più insufficiente.
Vennero al mondo i primi figli e con essi la guerra.
Non si mangiava.
Ci si nutriva di verdure dei campi e qualche tozzo di pane.
Certo la penuria non sfiorava il suo datore di lavoro don Vincenzo Ceparano che tra le tante sue qualità aveva la passione per i cani che Giuseppe accudiva.
Il suo cane preferito era un pastore tedesco assai bello che veniva nutrito a maccheroni e carne.
Don Vincenzo chiamava Giuseppe e gli dava il piatto condito, anche con formaggio, da portare al suo cane che schizzinoso a volte annusava e non mangiava.
Troppo per il povero Giuseppe al quale non solo era quasi sconosciuto il sapore della carne, ma che aveva dimenticato quello dei maccheroni e ora digiunava.
Aveva sempre messo quel piatto davanti al cane senza pensarci più di tanto, Giuseppe.
Ora incomincia a pensare che quella bestia non mangia per abbondanza mentre i suoi figli piangono per fame.
Egli che non può consumare più di una cipolla al giorno, quando c’è grascia.
No, non è bene così!
S’indispettisce Giuseppe, e un giorno chiede al cane te lo mangi o come gli altri giorni lo fai sprecare?
Il cane lo guarda e se ne va.
Giuseppe in un batter d’occhi svuota il piatto.
Come si sente bene.
Gli vengono le lacrime agli occhi per la sazietà.
Il giorno successivo accade la stessa cosa e poi il terzo.
Il cane ora si mette davanti a Giuseppe e aspetta, ma nemmeno una briciola va a lui.
Zecchinetto l’osserva, tira fuori la cipolla dal tascapani e gliela lancia.
Il cane l’annusa e la lascia.
“Ah, non la mangi?, te la conservo per domani!”
Nemmeno i giorni successivi il cane la mangia e incomincia ad abbattersi.
“Giuseppe, vedo il cane un po’ abbattuto, che sarà?”, don Vincenzo.
Giuseppe, “Don Vincenzo, a mangiare mangia. Non lo so”.
Avviene il miracolo, il cane come Giuseppe gli rimette la solita cipolla davanti, ne fa un boccone.
È sollevato Giuseppe, ora finalmente il piatto al giorno è assicurato.
Trova la maniera di portarlo a casa e così anche la moglie e i suoi figlioli gradiscono.
Il cane fa progressi e incomincia a risollevarsi.
Si rimette in carne e anzi migliora l’aspetto.
La cipolla quotidiana gli fa bene.
Passa qualche tempo e un giorno don Vincenzo stava dando delle indicazioni a Giuseppe circa il lavoro.
Passano dalle parti del cane che fa loro le feste.
Dio leva il senno a chi vuol perdersi.
Giuseppe, orgoglioso, tira fuori dalla tasca la cipolla quotidiana del cane e grida: don Vincenzo guardate!
Lancia la cipolla.
Il cane la prende a volo e ne fa un sol boccone.
Don Vincenzo, “Come il mio cane mangia le cipolle?”.
“Sì, don Vincenzo!”
Non c’è bisogno di spiegazioni, non è uno stupido Ceparano.
All’istante licenzia Giuseppe e gli fa lasciare l’abitazione.

Michele (san severo 19/10/2009 12.40.24)

domenica 18 ottobre 2009

Nuda…

Nuda…
di lacrime vestita
le tue riversano sui miei
occhi stanchi
luce riflessa…
vita occultata riprende…
sudore
di linfa
anima labbri rinsecchiti
e gemme abbozzano l’inverno
disciolto al calore
pensieri tuoi accesi
gemme passate primavere

Michele (18/10/2009 14.01.35)

lunedì 12 ottobre 2009

Donna…

Donna…

La tua pelle della seta i brividi odo.
Luce della bellezza gli occhi cattura.
Nelle pieghe lascio il disio dell’ape.
Le curve assaporo del tatto le mani.
Il talamo della tua carne i profumi.
Ombra mi sovrasta greve il piacere.
Pudica il fiore dischiudi all’invito.
Sguardo musica avita in te spengo.
Eterno nei sensi lo splendore lasci.

Michele (12/10/2009 20.38.00)

domenica 11 ottobre 2009

Dolore...

Chissà…!
Se il Dolore versato dagli uomini s’aggrumi in qualche posto?
Se non risieda lì, in attesa di risarcimento?
Riscatto…
Qualcosa che gli dia senso?
È possibile ch’esso, prezioso di tanta fatica, stenti, ansie, angosce…
Dolore…
Si dissipi nel nulla?
Che non resti in luogo sconosciuto in attesa d’utile impiego?
Cosa che giustifichi, ricompensi…?
Certo, non coloro che l’hanno sofferto… speranza vana.
Ma altri?
Che poi si possa essere consapevoli o ignari di tanto beneficio…
Di lacrime - oceani estesi - di sofferenze tante, larghe e profonde…
D’esser affrancati da giogo così grave…
Non è necessario.
Importante.
Essenziale sarebbe che non andasse perso.
Che a Patimento non supportasse ancella:
Beffa…
Vacuità…
Nulla…
Il Niente…
Speranza, catena inane…
Dolore, anche questo.

Michele (san severo 11/10/2009 10.55.43)

mercoledì 7 ottobre 2009

Cogito ergo sum

Cogito ergo sum.
È l’uomo si scoprì pensatore…
Tutti…
Nessuno escluso.
Così l’universo umano man mano andò sempre più caratterizzandosi, fino a divedersi in due:
l’uomo pensatore escatologico;
l’uomo pensatore scatologico.
Il primo parla al mondo con il pensiero.
Il secondo olezza il mondo con il proprio afflato.

Michele (07/10/2009 9.48.47)

Amoralità...

Ore di pensieri assenti,
ne la carne turgida, te
smisurata, organo sento
Amore, ritmico pulsante
eiaculato, soffio movenze
ancestrali disio, spegne.

Michele (03/10/2009 18.50.12)

giovedì 1 ottobre 2009

Pensieri...

Voi che lì rinchiusi state, oh, pensieri,
ne l’amati, sudati… sofferti libri miei;
voi, tutti imperituri, che né spazio, né
tempo vi scardinerà vergati; voi, ch’io

ognun su pagine ho posseduto…, tutti
a me sopravvivrete. V’ho assai usato,
frequente il caso più ché pe’ intelletto
adoprati, or sarò da voi sopravanzato.

Oh, parole!, voi ne’ libri mii contenute
e di lettur fermate, voi che di governo
m’avete usato, pur possedendov’io, di
me fora, da li domini mia a or liberate,

lì, cosa farete? Altri, duttili, da plasmar
modelli troverete? Alcun, statur sì forte,
a venerar certo ponga che Vi si rispetti?
No che sia, di vivo rumor consunte, che

or voi stanche, cammin di gambe prive,
passo cederete a voce indistinta, eco di
silenzio greve? Ei, sì, crepitio di nessun
fuoco, suon assordante di parola negata.

Michele (01/10/2009 19.01.19)